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 2019  novembre 02 Sabato calendario

La caduta del muro di Berlino per un equivoco

Dalle vetrate spalancate della Filarmonica usciva il fiume impetuoso della Settima di Beethoven. Le note si perdevano tra la folla ansiosa di vedere, toccare, superare il Muro. In quella mattina di novembre, che ricordo limpida e che forse non lo era, dirigeva il concerto Daniel Barenboim. Non solo le finestre della Filarmonica erano aperte, lo erano anche le porte. Si poteva entrare e uscire liberamente da quella scatola magica che innondava di musica Berlino in festa. Quel giorno c’era quasi il doppio della popolazione: l’Est si era riversato nell’Ovest.
Ai piedi del Muro, del quale molti prendevano come ricordo un frammento, una scheggia, le note di Beethoven abbracciavano le note di Bach, che arrivavano dal Checkpoint Charlie, dove Mstislav Rostropovich suonava una suite col violoncello che si era portato da Parigi. Aveva noleggiato un aereo privato per arrivare al più presto da dove era fuggito vent’ anni prima. Nessuna divisa di poliziotto dell’Est o dell’Ovest spuntava tra la folla che si agitava libera nello spazio in cui fino a poche ore prima nessuno poteva addentrarsi senza rischiare l’arresto e talvolta anche la vita. Assai diverso era il clima nel 1961, quando iniziò la costruzione del Muro. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto di quell’anno quattordicimila cinquecento militari bloccavano le strade e le ferrovie che univano la città sul punto di essere divisa in due, che stava per diventare una metropoli siamese. Truppe sovietiche erano pronte a intervenire. Tutti i mezzi di trasporto tra le due parti della città erano stati interrotti. Col Muro già in piedi, in settembre, la metropolitana e la S- Bahan ( la rete ferroviaria periferica occidentale) continuavano a circolare sotto Berlino Est senza fermarsi, le stazioni del settore orientale erano state chiuse. Erano stazioni fantasma.
Ventinove anni dopo la Berlino capitalista era percorsa da intere famiglie della Berlino comunista con bambini sulle spalle, e collane di salsicce al collo. Avevano portato provviste in previsione degli alti prezzi dell’Ovest. Così si annunciava, con una grande festa popolare, l’imminente riunificazione della Germania, e dell’Europa. Ed era anche il disordinato, imprevisto preludio dell’implosione del comunismo, una delle più potenti ideologie della Storia. Sembrava non dovesse mai morire e si spegneva come una candela consumata. Noi, quel giorno di novembre, nella calca ai piedi del Muro, non pensavamo ai tanti cambiamenti in arrivo. Ci stupiva l’assenza di violenza nel corso di un avvenimento tanto carico di conseguenze.
A Pechino, mesi prima, durante l’estate, il partito aveva fatto sparare sui manifestanti ostili. A Berlino le truppe sovietiche restavano invece nelle caserme. E in Ungheria il governo aveva aperto la frontiera, la Cortina di ferro, con l’Austria senza che nessuno reagisse. I dirigenti comunisti tedeschi eranosmarriti: perché Mosca non imitava Pechino? Qualcosa di molto strano era accaduto un mese prima per il quarantesimo anniversario della Ddr, la repubblica comunista dell’Est: Mikhail Gorbaciov, l’ospite d’onore arrivato da Mosca, era stato applaudito, nella tarda sera, nel cuore di Berlino, dai giovani protestatari. La perestrojka, la politica di ristrutturazione promossa nell’Unione Sovietica, sconcertava i comunisti tedeschi.
Quelli venuti dall’Est si riconoscevano: erano affamati di immagini. Sbucati dai varchi appena aperti, spesso al volante delle sussultanti Trabant 601, le utilitarie comuniste guardate dai berlinesi occidentali più con compassione che con ironia, i berlinesi orientali esploravano, scoprivano, frugavano nella città che era pur sempre la loro anche se ventinove anni prima era stata spezzata in due. Era la parte proibita che scoprivano dopo averla scrutata per anni sui teleschermi, prima di nascosto, la notte, poi via via approfittando della tolleranza delle autorità comuniste costrette a subire la democrazia che scavalcava il Muro. Approdando a Berlino Est le immagini televisive provenienti da Berlino Ovest scolorivano. Il bianco e nero era dovuto a motivi tecnici, ma si pensava a una censura: come se la Germania comunista non dovesse essere sedotta, dovesse essere preservata dal chiassoso consumismo dell’Occidente. Quel mondo non più irraggiungibile appariva com’era, a colori. All’incrocio della Joachimstaler Strasse dove la Ku’damm, la vasta e lunga passeggiata berlinese, esplode nei grandi magazzini KaDeWe, migliaia di uomini e donne ammiravano ipnotizzati le vetrine: dalle mutande ai magnetofoni, alle fotografie di un Erotische Filmprogramme.
Quella sera del 9 novembre il Muro era già barcollante: non la costruzione in quanto tale, ma la sua funzione di” protezione antifascista”. Nel pomeriggio Egon Krenz, segretario generale del partito comunista tedesco orientale, aveva deciso di aprire nuovi punti di passaggio lungo la linea di demarcazione. Insomma altri buchi nel Muro. Ma si trattava ancora di un progetto. Erano state le autorità occidentali a imporre che il transito tra le due Berlino venisse non reso libero, ma facilitato. Lo avevano chiesto in cambio degli ingenti e ripetuti aiuti in marchi federali concessi al governo comunista che stava fallendo. E che, massima umiliazione, aveva dovuto rivolgersi al principale avversario, al governo capitalista di Bonn, perché Mosca, capitale dell’impero, dove regnava Mikhail Gorbaciov, aveva risposto picche. E sembrava decisa a abbandonare a se stessi gli alleati vassalli. Se la sbrigassero da soli.
Fino allora Günter Schabowski, un severo portavoce del partito, aveva tenuto a distanza i corrispondenti stranieri. Quel pomeriggio fu più disponibile del solito. Lo fu troppo. Non aveva afferrato bene le parole sussurategli dal suo capo, Egon Krenz, di fretta in un corridoio. Il segretario generale del partito gli aveva accennato al progetto di aumentare il numero dei passaggi tra Est e Ovest nel Muro. Il rigoroso Schabowski non aveva capito che si trattava di un’intenzione, non ancora di una decisione. Prigioniero di questo equivoco, oltre che sconvolto dalla confusione che cresceva tra i dirigenti comunisti, Schabowski rispose con due brevi frasi ai giornalisti che lo interrogavano sulle voci riguardanti l’apertura del Muro. Lo si poteva superare liberamente e in qualsiasi momento come si diceva? «Ab sofort» ( da subito) disse Schabowski. E ancora: «unverzueglich» ( immediatamente). Nessuno immaginò che un funzionario di secondo rango pronunciasse parole tanto importanti senza il permesso dei superiori. La cantonata del confuso Schabowski provocò la corsa al Muro. E cambiò la storia. Che in verità stava già mutando.
Esausti, i berlinesi arrivati dall’Est si riposavano sulle striscie di prato che fanno da spartitraffico in tanti viali della città. Il centro era stato chiuso alla circolazione e centinaia di Trabant erano parcheggiate nelle strade secondarie. Sembravano i mezzi di trasporto di un esercito povero, abbandonati dai soldati dispersi nella metropoli alla ricerca di un bottino. Era facile seguire il loro itinerario. Alle spalle si lasciavano lattine e bottiglie vuote, carte unte, scatolette di carne sventrate. Quei resti di un picnic improvvisato conducevano alle banche che pareva fossero prese d’assalto. Code interminabili erano in attesa di ricevere i cento marchi che il governo federale regalava ai” cari ospiti” venuti dall’Est. La Ku’damm, e con quella strada l’intera città, non offriva più l’immagine familiare della prosperità tedesco— occidentale, curata, leccata e mostrata come in una grande vetrina. Berlino aveva cambiato provvisoriamente volto. Era una metropoli normale invasa un giorno di festa dalla periferia. Davanti al Kempinski, l’albergo dove Karajan andava a nuotare nella piscina sotterranea, come in tanti altri grandi alberghi, si offrivano salsicce e bevande. Nessuno osava chiamare elemosina i marchi e le salsicce offerte ai” cari ospiti”.
Le carte unte in cui erano avvolte le vettovaglie gratuite volavano sulla Ku’damm portate dal vento ancora tiepido d’autunno. Una di quelle carte finì sulla faccia di una signora che non veniva certo dall’Est, vista la pelliccia che indossava. Lo scatto di collera era inevitabile. E un brontolio non tanto sussurato si alzò dai clienti attavolati al caffè del Kempinski. Per qualche istante trapelò l’irritazione provocata dall’invasione dei” cari ospiti” fino allora repressa.
Tracce di fastidio affiorarono da entrambe le parti. In casa di un’amica, più tardi a Berlino, ascolterò il lamento di un poeta dell’Est che con i suoi versi criticava il comunismo. E che come tale era isolato e privato di un lavoro dalle autorità, ma che era citato ed elogiato nella Germania dell’Ovest. Era un ammirato poeta del dissenso. La fine del Muro lo aveva detronizzato. I suoi versi avevano perso valore. Non interessavano più.