Il Messaggero, 3 novembre 2019
Quando Carlo Martelli cantò “O sole mio”
Era a Palazzo Chigi, quando crollò il Muro, Claudio Martelli. Vice-premier nel governo Andreotti.
Martelli, di quel momento resta proverbiale la battuta di Andreotti: «Amo così tanto la Germania che preferirei averne due». Era quello il mood del governo?
«In realtà quella battuta risale a Mazzarino e alla tradizione successiva della Francia che ha sempre preferito, per i suoi interessi politici, una Germania parcellizzata. E comunque, da parte di Andreotti ci fu un riflesso conservatore e il timore dell’arrivo della super-potenza tedesca».
Con il senno di poi, aveva ragione.
«Anche con il senno di prima. Perché per la sua forza economica, culturale, scientifica, tecnologica la Germania era stata potente fin dalla sua unificazione nel 1870. Ma questo riflesso conservatore di Andreotti riguardava la questione tedesca e non la dimensione geopolitica più generale. Cioè il fatto che crollassero la cortina di ferro e di conseguenza i regimi comunisti. L’enormità di quel passaggio storico non poteva sfuggire a nessuno».
Nel suo libro di memorie, «Ricordati di vivere», lei cita un colloquio a Berlino, due settimane prima della caduta del Muro, in cui un generale americano responsabile del Checkpoint Charlie le dice: «Ora saremo liberi anche dall’obbligo di tenerci come alleati dei dittatori sanguinari e dei politici corrotti». Alludeva, parlando di corrotti, anche all’Italia?
«Secondo me, sì. Quello che in Italia non si è capito è che la fine del comunismo avrebbe cambiato gli scenari interni ai singoli Paesi. Compreso il nostro che aveva il più grande partito comunista dell’Occidente. Una volta che viene meno il nemico, si scombussola tutto. Salta l’immobilismo interno agli Stati e in Italia è saltata la Prima Repubblica. Con il Pci in fase di cambiamento di nome che diventa un soggetto politico alla pari con gli altri».
O addirittura, per influenza e potere, superiore agli altri?
«L’ex Pci diventa il partito dell’establishment. Si fa garante della privatizzazione delle banche e delle grandi imprese. Nel 1980, Enrico Berlinguer ancora diceva che Lenin era attuale. Dieci anni dopo, l’ex partito comunista è quello più avanzato nel programma di svendita del patrimonio pubblico. È stata una gigantesca operazione di trasformismo».
Lei alla vigilia del crollo del Muro era a Berlino est. Come la ricorda?
«Ricordo un episodio tra i tanti. Riattraversando con l’ambasciatore Caruso il Checkpoint Charlie, il poliziotto di guardia alla barriera lungo il muro che separava l’Est dall’Ovest ci chiese i passaporti. Disse che non potevamo passare. Noi protestammo. Lui non mollava. Finché si rivolse a Caruso: tu Caruso? Tu canta! Tu canta O sole mio! Francesco non ne voleva sapere. Ma io, a bassa voce cominciai a intonare il ritornello e poi, dando di gomito a Francesco, gli ingiunsi di accompagnarmi. Così passammo».
Ora non c’è più il Muro ma ci sono i muri?
«È cominciata dall’89 la campagna del basta con le ideologie. E togliendo di mezzo l’ideologia comunista, poi quella socialista, poi quella liberale, resta in campo una sola ideologia: quella nazionalista. Oggi parliamo di sovranismo, e questo da una parte ha colmato il vuoto lasciato dalle vecchie culture e dall’altra è la reazione alla globalizzazione».
Stupì gli osservatori l’atteggiamento di Craxi. «Gorbaciov è un pazzo!», sbottò un giorno: «Solo un pazzo poteva distruggere in pochi mesi un impero che è stato costruito in 70 anni di lotte e di sacrifici».
«Quello fu un giudizio da grande professionista della politica. Non pensava, figuriamoci!, che non si dovesse uscire dal comunismo. Ma non credeva che si dovesse fare in quel modo. Pensava a una gradualità. Sapeva che i vuoti non vanno lasciati così come sono, perché qualcuno poi li riempie».
Sta dicendo che Bettino aveva previsto Putin?
«Aveva previsto che la maniera temeraria di agire, da parte di Gorbaciov, avrebbe spalancato una voragine. Craxi era sempre molto allertato dai pericoli che arrivano da destra. E aveva ragione».