il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2019
Le guerre dinastiche che affossano le aziende familiari
Il capostipite fu Julius August Walther von Goethe. Non sappiamo quanto la sua dedizione all’alcol fosse dovuta a un padre ingombrante come Johann Wolfgang. Certo è che, quando morì a Roma di cirrosi epatica, il grande scrittore fece scrivere sulla tomba “Figlio di Goethe”, privandolo per sempre dell’identità personale. La storia dell’uomo è piena di padri che trattano i figli come prolungamenti di sé. Ma quella lapide, “figlio di Goethe”, al cimitero acattolico di Roma sembra un monumento al capitalismo familiare italiano. La borghesia industriale è ossessionata dal desiderio di farsi dinastia. Molte delle maggiori imprese italiane, a cominciare dalla Fiat, sono andate in malora per la fissazione dei fondatori di affidarle a un consanguineo. Un drappello di feudatari onnipotenti ha imposto a un sistema economico arcaico il prezzo dei propri fallimenti, quasi sempre riconducibili ai drammi freudiani del rapporto padri-figli. Ogni dramma familiare è costato alla comunità dei sudditi miliardi di euro e migliaia di posti di lavoro. Nessuno ha protestato. Per decenni banchieri, manager, azionisti di minoranza, economisti, politici e giornalisti hanno taciuto per non perdere la priorità acquisita nella gara a chi otteneva il maggior beneficio con l’elogio più spudorato del padrone, e soprattutto dei figli quand’anche palesemente idioti.
Da questo punto di vista, la figura più limpida è stata quella del fondatore dell’Esselunga, Bernardo Caprotti, morto tre anni fa a 91 anni. Una decina d’anni prima dell’inderogabile commiato, aveva già tolto le deleghe gestionali a suo figlio Giuseppe, non giudicando all’altezza nessuno dei tre eredi. Successivamente aveva rafforzato il concetto revocando la donazione ai figli di primo letto Giuseppe e Violetta del 70 per cento delle azioni, che poi sono finite a Marina, figlia della seconda moglie Giuliana Albera. Le due creature deluse avevano fatto causa al padre, secondo una mozione degli affetti tipica delle belle famiglie del capitalismo italiano, di cui resta maestra insuperata Margherita Agnelli, la figlia dell’Avvocato che sull’eredità del padre ha fatto causa sia alla madre Marella Caracciolo che al figlio John Elkann.
Leonardo Del Vecchio a 84 anni ancora comanda sentendosi insostituibile. Anche lui ha prima promosso e poi eliminato dalla linea di successione manageriale il primogenito Claudio, 63 anni, e ha dato e tolto azioni ai sei figli. La struttura familiare è complessa. Claudio, Marisa e Paola sono figli della prima moglie Luciana Nervo, Leonardo Maria, ventenne, è figlio della seconda e quarta moglie Nicoletta Zampillo, i più piccoli Luca e Clemente li ha avuti dalla terza moglie Sabina Grossi, una parentesi rosa tra il primo e secondo matrimonio con la Zampillo. La quale, caso più unico che raro, tiene alto il vessillo muliebre nel capitalismo italiano. Dopo il divorzio del 2000, Del Vecchio l’ha risposata nel 2010 riconoscendole un premio notevole: adesso è lei l’erede principale, alla morte del marito avrà il 25 per cento della Luxottica e in prospettiva suo figlio Leonardo Maria è in pole position per comandare su fratelli e sorelle.
Del Vecchio non ha la fissazione di essere avvicendato da un consanguineo, semmai quella di non essere mai avvicendato. Quelli che non si arrendono al calendario tengono all’amo i figli per decenni, spesso trasformandoli in altrettanti patetici Carlo d’Inghilterra. Caso tipico sarebbe il 55enne Alessandro Benetton, che però forse la voglia di fare l’erede al trono non l’ha mai avuta. E comunque deve fare i conti con una famiglia complicata: quattro quote equivalenti, risalenti ai fratelli fondatori Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo, e uno statuto di stampo medievale che riserva ai consanguinei le cariche nelle holding di famiglia. Nel 2005, Luciano annunciò che il figlio Alessandro sarebbe diventato il nuovo capo dell’impero dei maglioni e dei pedaggi autostradali. “Ma prima dovrà farsi le ossa”, aggiunse, notazione inquietante se riferita a un uomo di oltre 40 anni. Da allora Alessandro è sempre apparso più che altro in fuga, mentre Luciano ci ripensava: “Credo che sia un errore cercare e imporre l’erede”. Un anno fa, alla morte di Gilberto, stratega della diversificazione nei servizi a pedaggio all’ombra della politica, si è riparlato di Alessandro, ma si è capito che non c’è accordo con i cugini che nel frattempo si spartiscono le poltrone nei cda del gruppo: solo due giorni fa Sabrina, figlia di Gilberto, è entrata nel cda di Atlantia, Christian, figlio di Carlo, in quello di Adr, e Franca Bertagnin, figlia di Giuliana, si è accomodata in quello di Telepass.
Il capitalismo familiare si arena se ci sono troppi parenti a mettere bocca, problema che in casa Agnelli fu risolto ripristinando una sorta di legge salica in favore di John Elkann: che in perfetta solitudine – nonostante un esercito di cugini-soci, il più ingombrante dei quali è il presidente della Juventus, Andrea Agnelli – tratta in queste settimane la grande fusione con i Peugeot, altra famiglia complicata, ma stavolta francese.
L’Avvocato però aveva anche stabilito il limite dei 75 anni per gli incarichi societari, al quale fu il primo a sottoporsi. Luciano Benetton, invece, a 84 anni è tornato a gestire la produzione di maglioni, parlando malissimo dei manager a cui l’aveva delegata per otto anni. I grandi vecchi che si ritengono insostituibili sono sadici non solo con gli eredi, ma anche con i manager, magari dopo averli scelti vantandosi della propria capacità di talent scout. Il campione è Cesare Romiti. Quando comandava alla Fiat cacciò Vittorio Ghidella perché sapeva fare le auto, mentre il sistema di potere del manager romano si fondava sulla accurata selezione di yes men incompetenti. Quando Romiti ha lasciato la Fiat, la liquidazione principesca concessagli dall’Avvocato gli ha consentito di costruire la sua dinastia imprenditoriale sui figli Maurizio e Pier Giorgio. Un fallimento clamoroso che il padre ha commentato alla Goethe: “I miei figli sono molto in gamba. Il loro vero handicap è chiamarsi Romiti e quindi ne risentono, come tutti i figli di uomini che hanno avuto un ruolo”. Storie di dieci anni fa. Adesso il disprezzo per i figli non all’altezza si esprime in modo più diretto. Il maestro di cerimonie è naturalmente Carlo De Benedetti.
Nelle scorse settimane ha fatto una piazzata ai figli Rodolfo e Marco accusandoli pubblicamente di essere due incapaci, responsabili del deplorevole stato della Gedi, colosso editoriale nato dalla fusione tra Repubblica-Espresso e Stampa-Secolo XIX. Ha parlato di “gestione del tutto inefficace, azienda senza vertice e senza comando, sconquassata e non gestita, nave senza capitano, in balia di onde altissime”, e tutto questo perché, semplicemente, i due rampolli “non sono capaci di fare questo mestiere”.
De Benedetti è sicuramente il vero campione di quel capitalismo familiare che per decenni ha dato a intendere agli italiani – grazie all’ampia corte sopra descritta di ruffiani col master – di avere i meriti di ciò che andava bene e nessuna colpa di ciò che andava male. Gente che ha usato le scatole cinesi per comandare con i soldi degli altri (De Benedetti deteneva il 5 per cento del capitale del suo gruppo) e con un solo obiettivo: perpetuare il potere della propria dinastia di capitalisti con i soldi degli altri. Quando, all’inizio di ottobre, ha rivolto a Rodolfo (presidente della controllante Cir) e Marco (presidente di Gedi) un’offerta per comprarsi a prezzo vile il pacchetto di controllo del gruppo editoriale, e i due figli lo hanno mandato al diavolo trattandolo da rincoglionito, la rusticana volgarità della contesa ne ha oscurato l’aspetto più scandaloso. L’Ingegnere sette anni fa ha donato ai figli tutte le azioni, cioè quel 5 per cento di cosiddetto “possesso integrato” con cui la famiglia comanda sull’impero. E ha imposto agli azionisti di minoranza, detentori del 95 per cento del capitale, un manager a suo dire eccellente, suo figlio. “Rodolfo è una sicurezza”, affermò con la stessa tracotante sicumera con cui garantiva all’Italia un radioso avvenire grazie ai suoi statisti preferiti, Walter Veltroni e Francesco Rutelli. In pochissimo tempo, Rodolfo si è fumato 2 miliardi di euro (delle banche) sbagliando gli investimenti in centrali elettriche della Sorgenia, e spiegando poi agli azionisti che l’investimento era stato geniale, solo che non si erano avverate le previsioni su cui era basato. Gli azionisti della Cir hanno perso la Sorgenia e le banche se la sono dovuta accollare al posto dei 2 miliardi di crediti.
Nel frattempo, De Benedetti, pur avendo ammazzato la Olivetti e varie altre aziende, o forse proprio grazie a quello, ha messo da parte un gruzzolo personale di 600 milioni che usa per giocare in Borsa, come ha dimostrato la vicenda Renzi-Etruria. E come dimostra una segnalazione del Sole 24 Ore: lo stesso bollettino padronale ha notato, proprio alla vigilia della stravagante offerta per le azioni Gedi, movimenti sospetti sul titolo. Appena un anno dopo aver lasciato gli azionisti in balia del genio manageriale di Rodolfo, l’Ingegnere liquidò l’ideona Sorgenia in un modo che val la pena di rileggere nella ricostruzione dell’agenzia Ansa del 14 febbraio 2014: “‘Non c’entro nulla, non sono in consiglio e non sono più azionista Cir. È una domanda che dovete fare ad altri’. Così Carlo De Benedetti ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano se ci siano spiragli nelle trattative sulla sistemazione della partita finanziaria di Sorgenia, la società elettrica del gruppo Cir”.
Anziché chiedere scusa agli azionisti Cir e Gedi per avergli mollato due manager che lui stesso dipinge – con cognizione di causa – come incapaci, De Benedetti continua a spadroneggiare sul Corriere della Sera, sempre pronto a ospitarlo, e fa sapere ai mercati finanziari che gli 85 anni che compirà fra pochi giorni non sono un problema: “Mi sento molto bene”. Quindi punta a riprendere la guida di Repubblica ed Espresso, ma non per sempre, solo per due o tre anni, cioè fino all’88esimo compleanno. Nei Paesi civili, se un uomo di 85 anni manifesta simili propositi su società quotate, come minimo chiamano un medico. In Italia – trattandosi di un potente (ex?) editore in grado di far annusare una botta di carriera a un giornalista, un finanziamento a un economista, spazio sui giornali a un politico – gli si offrono microfoni e taccuini per fargli dire tutto e il contrario di tutto senza mai obiettare. Nel 2012 spiegò che la decisione di lasciare il campo a quel genio di Rodolfo voleva contribuire a “un più ampio passaggio generazionale in un capitalismo troppo rivolto al passato”. Nel 2019, gli lasciano dire, senza chiamare il medico, che l’ambizione di spodestare i figli e tornare al timone della Gedi è solo una normale forma di arditismo senile: “C’è molta gente che molla, e c’è poca gente che osa”. L’ha detto davvero. Il “boia chi molla” di un capitalismo morente.