il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2019
Biografia di Teresa Bellonova
Come Teresa Bellanova sia arrivata a essere un personaggio centrale nella politica italiana è mistero profondo quanto gaudioso per chi ne ha seguito tutti passi. Oggi, finita in un partito di schietta destra liberale, la sua resistibile ascesa si è conclusa con la più ovvia delle beatificazioni mediatiche: quella garantita dagli haters per le critiche becere ricevute sui social per il vestito, invero non azzeccatissimo, con cui si presentò a giurare da ministra dell’Agricoltura (in quota Renzi) al Quirinale.
È l’epilogo perfetto dell’equivoco Bellanova: l’ex bracciante che alla Leopolda scandisce “il merito è di sinistra” come un bocconiano qualunque, la ministra che vuole proteggere i prodotti italiani rilanciando i trattati di libero scambio e fare “la lotta al cambiamento climatico” mandando in giro mercantili e aerei che inquinano come qualche milione di macchine a spostare merci dagli angoli più disparati del globo. La coerenza però, come vedremo, non è una sua preoccupazione.
La leggenda di Teresa Bellanova si fonda sulle sue origini: classe 1958, pugliese di Ceglie Messapica (Brindisi), bracciante a 14 anni, più tardi operaia tessile, entra adolescente nella Cgil e nel Pci. Il sindacato, oltre che un lavoro, le darà anche l’amore: durante una missione in Marocco incontra l’uomo che diventerà suo marito (“era il mio traduttore”) e da cui avrà un figlio. Il partito le regala invece una insperata carriera politica grazie al suo leader di riferimento: Sandro Frisullo, pezzo grosso della filiera post-comunista in Salento, a lungo colonnello in Regione di Massimo D’Alema.
Fino ad anni recentissimi, infatti, Bellanova è la tipica quinta fila di quella che Pier Luigi Bersani chiamava la “Ditta”: è grazie all’allora potente Frisullo che l’attuale ministra si ritrova deputata nel 2006, confermata nel 2008 e poi nel 2013, quando la rete salentina del cacicco locale – nonostante lui fosse già finito in disgrazia – le consente un bell’exploit alle “parlamentarie” del Pd. Bellanova, d’altronde, non ha mai nascosto la sua vicinanza a Frisullo: finito in galera in un filone dell’inchiesta su Gianpi Tarantini (quello delle escort per B.), la ministra sarà la prima ad andarlo a trovare (“gli credo: provo dolore puro”). Il nostro finirà poi assolto per quasi tutto: tra le molte accuse, ne resisterà una per turbativa d’asta in un appalto sanitario.
Come che sia, quel che qui rileva è che Bellanova fosse così frisulliana, e in quanto tale dalemiana, da non sopportare critiche ai cari leader neanche in famiglia: “Non ti permetto di parlare così di Massimo”, rintuzzò una volta un compagno di corrente che, in una riunione, s’era permesso una battuta. Pure Matteo Renzi incorse nelle sue ire: “Gli attacchi del sindaco di Firenze a D’Alema ormai assumono caratteri grotteschi”; “l’immagine che ritrae il camper di Renzi che asfalta D’Alema ci dice che è stato superato ogni limite: vergogna!”. Era il 2012 e il giovine di Rignano non le era ancora apparso come il faro politico che diventerà poi: ancora nel 2013 la pasionaria di Italia Viva al Congresso sostenne Gianni Cuperlo contro il rottamatore. L’anno dopo – quando giura da sottosegretario al Lavoro su indicazione della “Ditta” – l’Ansa ce la descrive così: “Sul suo profilo Facebook campeggia la foto di lei che abbraccia Bersani (…) È una bersaniana di ferro”. E lei: “Sono all’antica, sono per le passioni solide”. Le passioni, si sa, pure quelle solide, a volte crollano all’improvviso. Simbolica, proprio in quel 2014, la gestione alle Camere del Jobs Act che diabolicamente Renzi affidò proprio a lei, sindacalista e bersaniana che, in corso d’opera, si fece renziana.
L’escalation è memorabile. Il 27 giugno: “Il governo sta portando avanti una poderosa riforma del mercato del lavoro e non comprende l’articolo 18 o lo Statuto dei lavoratori, né altra revisione del contratto a tempo indeterminato”. Già il 16 settembre non era più proprio così: “Non c’è l’idea di cancellare l’articolo 18, ma di lavorare per riscrivere parti dello Statuto dei lavoratori”. Il giorno dopo: “Le tutele aumenteranno mano a mano che aumenterà l’anzianità di servizio”. Il 22 settembre: “Non si può dire che nella delega sul lavoro ci sia la cancellazione dell’articolo 18”. Poi si poté dire e lei dichiarò: “Il decreto toglie alibi a chi in questi anni si è mascherato dietro l’articolo 18 per non assumere” (27 dicembre). Giusto un anno dopo debutta alla Lepolda.
Negli anni il cambiamento, anche linguistico, è totale: fino al 2014 Bellanova è pensioni, sicurezza sul lavoro e cassa integrazione, dopo inizia a discettare pure di cyber-sicurezza cara al circolo di Rignano. Nel 2010, ad esempio, altro che “il merito è di sinistra”, parlava un po’ come certi grillini al balcone: “Il compito della Ragioneria Generale è solo di verificare la disponibilità di fondi, non di esprimere valutazioni politiche (…) È ancora vigente la Costituzione o è stata ormai ridotta alla funzione di fermacarte sulle scrivanie delle stanze del potere?”.
Prendiamo la riforma Fornero delle pensioni. Ai renziani guai a chi gliela tocca, ma un tempo Bellanova non era una sostenitrice di quel genere di norme: “In Italia le donne che vogliono lavorare oltre i 60 anni possono farlo già: l’innalzamento dell’età pensionabile è una proposta demagogica, inaccettabile e iniqua” (2009); “Bene che il ministro Giovannini si sia impegnato a modificare la Fornero per renderla più graduale” (2013).
Pure sulle scissioni pare che la sua sensibilità sia mutata. Se oggi è aggregata al partitino renziano, nel 2017 irrideva così i bersaniani: “Ma come si può pensare di mettere in discussione un grande progetto come il Pd per fare un Pci in miniatura?”. Nemmeno il Lìder Massimo s’è salvato: “Ilva? D’Alema non sa di cosa parla” (19 gennaio 2018). Una settimana dopo, con quel sadismo che ce lo rende simpatico, Renzi la candidò proprio contro D’Alema in Salento: persero male entrambi. Ora, inopinatamente, Bellanova è ministra: “Non ce la meritiamo”, hanno scritto i suoi fan su Twitter. Ma forse sì.