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 2019  novembre 02 Sabato calendario

Gli ultimi difficili anni di Condé Nast

Condé Nast è uno dei colossi dell’editoria mondiale: fondato nel 1909 da Condé Montrose Nast, rivoluzionò il mondo dell’editoria dell’epoca e continua a pubblicare alcune delle riviste più lette e conosciute, come Vogue, Vanity Fair, il New Yorker e GQ. Per molti anni lavorarci era tra le massime aspirazioni per chi voleva fare il giornalista, non solo per l’alta qualità del suo giornalismo ma anche per la vita che ci si faceva, fra stipendi e benefit generosi e la frequentazione di personaggi celebri e potenti. Negli ultimi anni però anche Condé Nast è stato travolto dalla crisi dell’editoria e si è scoperto un colosso poco aggiornato ai tempi, che arranca dietro a piattaforme digitali agguerrite e che si barcamena tra tagli di personale e il calo dei ricavi pubblicitari: si trova insomma, come aveva riassunto nel 2017 il direttore del New Yorker David Remnick, in un «dignitoso stato di panico».

Nel 2014 Condé Nast abbandonò la sua storica sede a Times Square per distribuirsi su 23 piani nel nuovo One World Trade Center di New York e tre anni dopo dichiarò perdite pari a 120 milioni di dollari (108 milioni di euro); sempre nel 2017 Graydon Carter lasciò la direzione di Vanity Fair dopo 25 anni e a ottobre morì, a 89 anni, Samuel Irving Newhouse Jr., detto Si, il presidente emerito della casa editrice che aveva ereditato dal padre, Samuel Irving Newhouse Sr., e aveva trasformato in un gruppo di successo planetario. Da allora il futuro di Condé Nast sembra ancora più incerto e confuso: il giornalista Reeves Wiedeman del (rivale) New York Magazine ha scritto un lungo e informato articolo per provare a delinearlo, raccontando gli ultimi difficili anni dell’azienda, lo stato delle pubblicazioni più importanti e le scelte dei suoi dirigenti e direttori chiave, a partire da Anna Wintour, leggendaria direttrice di Vogue.

Condé Nast fondò il suo impero editoriale proprio su Vogue: quando lo comprò era un settimanale di costume che raccontava eventi sociali e dava consigli di bon ton. Condé Nast lo trasformò in una rivista di moda rivolta all’alta società americana, assumendo i migliori illustratori e fotografi e rimpinguando le entrate con le inserzioni pubblicitarie. Forte del successo, comprò nuove riviste all’insegna del motto “Class Not Mass”, “Classe, non masse”. Nel 1959 il gruppo era però diventato un colabrodo economico e fu comprato da Sam Newhouse Sr, fondatore del gruppo editoriale Advance Publications, che amava raccontare di averlo fatto come regalo di anniversario di matrimonio per la moglie, lettrice di Vogue. L’affare venne soprannominato “Sam’s folly”, la follia di Sam, ma sotto la gestione di suo figlio Si, Condé Nast divenne il secondo gruppo editoriale americano dopo Time Inc. (ora crollato). Non era solo una macchina editoriale ben oliata e prospera, era anche un mondo semi-mitologico, fatto di direttori potenti e rivali tra loro in grado di decidere le sorti dell’industria culturale americana, a partire da Wintour, resa ancora più famosa dal film Il diavolo veste Prada dov’è impersonata da Meryl Streep.

L’ultimo grande investimento in questo mondo dorato è del 2007, quando Si Newhouse spese, pare, più di 100 milioni di dollari (90 milioni di euro) per fondare la rivista di finanza Portfolio, che chiuse due anni dopo dimezzando la ricchezza personale di Si e riducendola a 2 miliardi di dollari (1,8 miliardi di euro). I giornalisti iniziarono a viaggiare in business class anziché in prima classe e i benefit vennero tagliati, ma nel gruppo tutti erano certi che sarebbe stata una crisi temporanea. Sempre in quell’anno, nel 2009, uscì il documentario The September Issue, che glorificò ulteriormente Wintour raccontando la preparazione del numero di settembre 2007 di Vogue: è il più importante dell’anno, quello con il maggior numero di inserzioni pubblicitarie, che fecero alzare le pagine di quel numero a 840. Per fare un confronto, il numero uscito nel settembre 2019 ha ridotto le pagine di un terzo, a 596.

Condé Nast gestì le sue finanze e la sua organizzazione dissennatamente per anni: non aveva mai dovuto far quadrare i conti grazie al sostegno di Advance, il gruppo di Newhouse di cui faceva parte. Wiedeman scrive che negli anni Novanta il quotidiano Advance (che dà il nome al gruppo di Newhouse), dedicato soprattutto a politiche e affari locali di Staten Island, pare guadagnasse da solo quanto l’intero Condé Nast. E anche quando le cose cominciarono ad andare male per i giornali a causa di internet, Condé Nast sembrò poter continuare a fare come sempre, favorita anche dagli inserzionisti di lusso, che continuarono a farsi pubblicità sulla carta anziché nel digitale. Si Newhouse non si occupò mai del digitale e lo affidò al nipote Steven, che aprì una serie di siti indipendenti dalle riviste di carta, come Style.com. Le grandi testate del gruppo per molti anni continuarono a fare affidamento sulle solite pagine di inserzioni pubblicitarie, anziché rinnovarsi e cambiare strategia.

Anni di sperpero e assenza di visione hanno portato, scrive Wiedeman, alla Condé Nast di oggi: un’azienda che nel 2017 ha perso quanto aveva ricavato nel 2003, che ha una ventina di marchi che un tempo chiamava riviste e che ora producono oltre ad articoli anche video e vari gadget, nove dei quali hanno anche una versione di carta negli Stati Uniti. Negli anni sono state chiuse molte testate, come House&Garden, Men’s Vogue, Gourmet, o solo le versioni cartacee, compresa quella di Glamour, che un tempo era la rivista più profittevole del gruppo. Come ha riassunto un impiegato di lunga data a Wiedeman: «Il mio LinkedIn è un cimitero dell’industria delle riviste». Ora Condé Nast non occupa più 23 piani, produce 4.000 video digitali all’anno e ha trasformato la sezione dei contenuti sponsorizzati chiamata 23 Stories in un’agenzia pubblicitaria, la CNX.

Fino a cinque anni fa l’80 per cento delle entrate del gruppo arrivava dalla pubblicità sulla carta, ora il 60 per cento è ricavato in altri modi. Quasi tutte le pubblicazioni producono contenuti online gratuiti ma hanno allargato la loro offerta ad altri settori: GQ vende box con calzini costosi e altri gadget, Bon Appétit ha sviluppato Test Kitchen, un canale di videoricette di grande successo su YouTube, Pitchfork organizza festival musicali a Parigi, Chicago e Berlino. Oltre a Vogue, le testate con il maggior investimento in termini giornalistici sono Wired e Vanity Fair, che hanno costruito delle redazioni online e hanno paywall da 10 dollari l’una all’anno. Il New Yorker è la punta di diamante e la pubblicazione di maggior successo: grazie alla sua forte identità e al suo prestigio, ha convinto 1,3 milioni di persone ad abbonarsi pagando 149 dollari (139 euro) all’anno per il cartaceo e per l’online. È in attivo e un numero di settembre aveva solo tre pagine intere di pubblicità.

In questi ultimi anni non sono cambiate solo le riviste e il loro modo di lavorare, ma l’intera struttura del gruppo. Per anni, scrive Wiedeman, «andavano avanti come clan in guerra tra loro, che vivevano su isole separate in un arcipelago snob, sparandosi con cannoni d’oro l’una all’altra mentre miravano anche ai gruppi rivali Hearst o Time Inc.». Si racconta che Si Newhouse raccomandasse ai giornalisti di non parlare di lavoro in ascensore perché tutti nel palazzo erano loro rivali, pronti a contendersi le interviste, le copertine con le star del momento e gli inserzionisti. Questa rivalità pullulante divenne un problema con la preminenza dell’online, quando ogni sito aveva i suoi tecnici e tutti erano intenti a risolvere gli stessi problemi. Per questo fu difficile digerire l’azzeramento dei confini deciso dalla direzione: i fotografi e i grafici di tutte le pubblicazioni vennero accorpati nel Creative Group, il gruppo dei creativi, presto usato anche come agenzia pubblicitaria; tutti i copy editor (i redattori che rivedono la scrittura di un articolo) e i fact-checker (quelli che controllano la correttezza dei dati in un pezzo) finirono nel Content Integrity Group, e tutti i tecnici, che disegnavano e curavano la manutenzione dei siti, furono riuniti nel Co/Lab. Finì che il personale che lavorava alla stessa pubblicazione si ritrovava distribuito anche su 4 piani diversi: la concorrenza tra una testata e l’altra diminuì, ma si perse il lavoro di squadra e l’idea di avere un progetto comune.

Le rivalità divennero allora settoriali, con la preminenza di Co/Lab, che dovette da subito risolvere i problemi di sistema tecnologico obsoleto. Per strappare i migliori informatici alla concorrenza, il piano di Co/Lab venne arredato con tavoli da ping pong, divani e snack gratuiti, birra, hummus, guacamole, noci e mandorle. I giornalisti iniziarono a sciamare dagli altri piani e il venerdì pomeriggio, ha raccontato un impiegato di Co/Lab, i fact-checker del New Yorker si fermavano a riempire i loro zainetti di lattine di birra. Alla fine del 2018 il capo del digitale si dimise, Co/Lab venne sciolto e tutti i dipartimenti si dotarono di un’offerta di spuntini economici.

Tra tutte queste crisi e ribaltoni ha resistito, serafica e con sempre più potere, Anna Wintour. Dirige Vogue dal 1988, dal 2013 è direttrice artistica di Condé Nast con il compito di supervisionare tutti i mensili e dalla scorsa estate, dopo mesi di voci su un suo imminente congedo, è anche consigliera dei contenuti globali, con la responsabilità di soprintendere alle pubblicazioni internazionali del gruppo. Molti considerano Wintour, che a novembre compirà 70 anni, il collante dell’azienda, altri si chiedono quando lascerà spazio a un successore e additano una crisi editoriale da quando è direttrice artistica. Dal suo arrivo, Wintour ha iniziato il rifacimento di molte riviste, portando a un certo livellamento delle testate e a una generale perdita di identità; ha anche piazzato nei posti di potere gente di Vogue. Si è occupata soprattutto di Self, Glamour e Brides: i primi due, nota Wiedeman, non esistono più in formato cartaceo, il terzo è stato venduto.

Hanno invece mantenuto una certa indipendenza GQ e Vanity Fair, anche se entrambi sono rimasti senza gli storici direttori. A gennaio Jim Nelson di GQ è stato sostituito da Will Welch, che ci lavorava dal 2007. Welch si è rivolto a un pubblico più attento alla moda e anziché parlare all’”Uomo Americano” ha puntato a una nicchia: «puoi avere un pubblico enorme concentrandoti molto su poche cose», ha spiegato. Nel mondo della moda sta funzionando, come ha detto gente del settore a Wiedeman: «GQ ora è figo, ed è la prima volta che accade negli ultimi 30 anni». D’altra parte però GQ ha ridotto l’impegno giornalistico sulle storie, sulla politica, sul reporting.

Anche Vanity Fair è cambiato dopo le dimissioni di Graydon Carter e con l’arrivo della nuova direttrice Radhika Jones, nel novembre del 2017. Carter era famoso per la vita mondana, i rapporti di amicizia con le celebrità di Hollywood, la grande festa che aveva associato al nome del giornale, uno degli eventi mondani dell’anno. Jones proviene dal mondo molto più sobrio della Paris Review, tra le più importanti riviste letterarie al mondo, e dalla redazione culturale di Time, che aveva diretto dal 2008. Il suo Vanity Fair è impegnato, virtuoso, lontano dal chiacchiericcio e dallo sfarzo amato da Carter e, secondo alcuni, più scialbo e noioso, con articoli che raramente fanno parlare di sé. Non essendo stata in grado di raccogliere abbastanza denaro, nel 2018 Jones dovette tagliare 14 milioni di dollari (13 milioni di euro) dal budget annuale e licenziò alcuni tra i più importanti giornalisti e collaboratori della rivista. In particolare è stata accolta freddamente dal mondo della moda: la marca di cosmetici Estée Lauder per esempio ha spostato 2,5 milioni di dollari (2,2 milioni di euro) in pubblicità da Vanity Fair ad altre pubblicazioni, tra cui il nuovo progetto di Carter, la newsletter settimanale di lifestyle Airmail.

Il settore in cui di recente Condé Nast ha investito di più è Condé Nast Entertainment (CNE), un’azienda di produzione video lanciata nel 2011 dopo che alcuni articoli pubblicati dalle testate del gruppo erano stati trasformati in film senza che all’azienda ne venisse alcun guadagno, come Brokeback Mountain uscito sul New Yorker e Argo pubblicato da Wired. In otto anni però ha prodotto solo qualche film e programma tv e si è spostato dal mondo di Hollywood a quello di YouTube, anche qui senza grossi successi e tantissimi investimenti perduti. Alla fine ha lanciato una serie di format ripetibili, il più famoso dei quali è 73 Questions, 73 domande. È un prodotto di Vogue in cui personaggi famosi rispondono a una domanda dietro l’altra: «doveva essere un contenuto alto e dall’aspetto costoso ma alla fine il modello è cambiato completamente diventando qualcosa più simile a Buzzfeed», ha spiegato un ex dipendente di CNE. Il modello è stato replicato da Vanity Fair, GQ e Wired, ognuno con un diverso tema, e Condé Nast è diventato tra i principali editori di contenuti su YouTube, non ricavandone però abbastanza. Ha più successo degli altri il canale di Bon Appétit, il sito di cucina: gli chef sono più facili da reperire delle celebrità e non è necessario spartire con loro i ricavi pubblicitari ottenuti dagli sponsor inseriti nei video. I video sembrano comunque il futuro del gruppo, come ha spiegato un ex dirigente che l’anno scorso aveva lavorato a un piano di crescita di cinque anni: stando a calcoli e previsioni «tutto tranne i video era irrilevante».

Il futuro di Condé Nast si trova ora nelle mani della famiglia Newhouse e nella capacità di visione di Roger Lynch, il nuovo amministratore delegato. I Newhouse non hanno problemi economici e potrebbero continuare a sostenere il gruppo editoriale per anni affrontando serenamente le perdite (la loro ricchezza personale supera i 18 miliardi di dollari, pari a 17 miliardi di euro): il punto è che non hanno alcun interesse a farlo. Non sono affezionati al progetto come Si Newhouse, stanno investendo in altri settori e non hanno grosse ragioni per continuare a buttare soldi. I più coinvolti nell’azienda sono il nipote e il cugino di Si, rispettivamente Steven e Jonathan Newhouse, entrambi sulla sessantina. Jonathan è diventato il presidente dell’azienda dopo la morte di Si; si trasferì a Parigi negli anni Ottanta e da allora si occupa di Condé Nast International, cioè delle pubblicazioni non statunitensi. Steven è presidente di Advance, la società che controlla tutto l’impero dei Newhouse, e vive a New York. Ci sono molte storie e pettegolezzi attorno alle intenzioni dei Newhouse, ma Steven Newhouse ha spiegato a Wiedeman che «Non siamo nel mondo dell’editoria per divertirci come se fossimo i proprietari di una squadra di calcio: ci siamo da 100 anni ed è una cosa che prendiamo seriamente». Steven Newhouse ha anche smentito le voci di una possibile vendita al gruppo rivale Hearst, ad Apple o Google: «Condé Nast non è stato, non è e non sarà in vendita». Ha anche detto che il futuro dell’azienda è nelle mani di Lynch, ex amministratore delegato del servizio di radio online Pandora Internet Radio, acquistata nel febbraio 2019 da Sirius XM Satellite Radio per 3,5 miliardi di dollari.

Roger Lynch è il primo CEO esterno a Condé Nast dalla sua fondazione e ha preso il posto di Bob Sauerber, che la guidava dal 2005; è arrivato da San Francisco a metà aprile dopo aver rifiutato altri tre lavori, senza alcuna esperienza editoriale. Per sei mesi ha parlato con i dirigenti e gli impiegati del gruppo per farsi un’idea di cosa funzioni e di cosa no. Dopo aver lavorato sempre per aziende che facevano profitti utilizzando contenuti prodotti da altri, è convinto che l’unico modo per essere competitivi con questi servizi sia produrre contenuti esclusivi. «Sono stato assunto per creare una società di media del XXI secolo. Parte del compito è capire che cosa significhi, perché è qualcosa che ancora non esiste veramente». Lynch dovrà anche arginare le perdite di giornalisti che negli ultimi anni sono fuggiti da Condé Nast per fondare nuove realtà editoriali come Glossier, per lavorare da Instagram, Snapchat, YouTube o nella linea di abbigliamento di Victoria Beckham. «Dopo anni di drammi, restrizioni e intrighi, sembra che Condé Nast stia semplicemente diventando normale: soltanto un’altra azienda editoriale che sta cercando di farcela», conclude Wiedeman.