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 2019  novembre 02 Sabato calendario

Una vecchia intervista a Clint Eastwood

Era al telefono e parlava di matrici, loop e di tutte le altre cose insondabili di cui parlano i registi quando chiamano la Costa. «La traccia audio è venti frame più avanti rispetto alla musica e l’elaborazione del colore non è venuta bene sulla copia-lavoro». Hitchcock? Minnelli? Beh, non ridete. Ci credereste? Si tratta di Clint Eastwood.
Era a New York per promuovere il suo nuovo film, La notte brava del soldato Jonathan, un horror gotico sulla guerra civile in cui un gruppo di donne predatrici gli dà da mangiare dei funghi avvelenati per aver calpestato la tartaruga di una bambina. Ma era chiaro che quello che gli interessava realmente era un altro film intitolato Brivido nella notte, che segnava il suo esordio alla regia.
«Dopo diciassette anni passati a sbattere la testa contro il muro, ad aggirarmi per i set, magari a influenzare il posizionamento della cinepresa con le mie opinioni, a guardare gli attori che subivano di tutto senza alcun aiuto e a lavorare con registi bravi e scadenti, sono arrivato al punto in cui sono pronto a girare i miei film. Ho messo da parte tutti gli errori che ho fatto e tenuto tutte le cose buone che ho imparato e ora so abbastanza cose da avere il controllo sui miei progetti e ottenere ciò che voglio dagli attori. Perciò ho diretto questo film, lo sto montando io stesso e penso che sia un signor lavoro.
«Quando facevo la fame, conoscevo una ragazza che bussava a tutte le porte cercando di farsi assumere come sceneggiatrice mentre lavorava come segretaria. Aveva scritto un trattamento di sessanta pagine su un dj di provincia che una sera incontra una ragazza in un locale; quando lui torna dalla fidanzata, l’altra impazzisce, comincia a perseguitarlo, gli uccide la donna delle pulizie e trasforma la sua vita in un incubo.
«Ci sono un sacco di azione e di suspense e ho usato una troupe ridotta e un budget basso, solo ottocentomila dollari, ma credo di aver fatto un film che ne vale di più. Ma se si rivelerà un fiasco, saprò almeno che la colpa è solo mia e non di altri. Ho già partecipato ad abbastanza fiaschi in cui la colpa era di qualcun altro».
Per un attore che alcuni considerano di vecchio stampo hollywoodiano «vero cowboy, voce da Gary Cooper, un metro e novantatré, perfettamente telegenico», questo atteggiamento può sembrare spiazzante. Ma quando si parla con Clint Eastwood, si comincia a scoprire che la sua mente e il suo cuore non sono legati agli stivali con gli speroni.
Finora la sua carriera non è stata presa molto sul serio dai giudici e dalle giurie che definiscono il confine tra divi del mercato e artisti seri, ma almeno lui è sincero su questo aspetto. «Il successo che posso avere avuto deriva in buona parte dall’istinto e un po’ dalla fortuna», dice. «Faccio semplicemente ciò che sento». 
E questo gli ha regalato una vita niente male: le donne gli si accalcano attorno, rifiuta una decina di sceneggiature alla settimana e, sommo riconoscimento, ovunque ti giri spuntano imitatori di Clint Eastwood come erbacce. Sogghignando come un ragazzino, distende braccia e gambe sul mobilio imbottito della sua suite all’hotel Regency, dà un morso a un sandwich al pollo e comincia a filosofare.
«Hollywood è strana. Tutti cercano la formula magica. Un anno sono due tizi in moto, l’anno dopo una ragazza che sta morendo di cancro, e il mercato viene inondato di imitazioni. Per anni ho vagato in cerca di un lavoro ed era sempre la stessa storia: avevo la voce troppo bassa, dovevo farmi incapsulare i denti, strizzavo troppo gli occhi, ero troppo alto... questo continuo tentativo di demolire il mio ego doveva per forza farmi diventare una persona migliore, oppure un perfetto stronzo. E so che se in questo istante entrassi in un ufficio casting dove nessuno sa che sono Clint Eastwood, mi ripeterebbero le stesse cose. La mia voce è ancora troppo bassa, ho ancora bisogno delle capsule ai denti, continuo a strizzare gli occhi e di recente mi hanno paragonato a una piccola sequoia. Ma dopo i western che ho fatto in Spagna, all’improvviso sono diventato Clint Eastwood e adesso sono gli altri uomini troppo alti e che strizzano troppo gli occhi a maledirmi! Vai a capire».
In realtà aveva già tentato quella strada prima dei film western di Sergio Leone. Aveva fatto un’incursione a Hollywood per frequentare il college grazie alla borsa di studio dell’esercito dopo due anni di addestramento di base a Fort Ord passati a insegnare nuoto. Aveva fatto il taglialegna nell’Oregon e cambiato una lunga serie di lavori saltuari, dalle acciaierie alla Boeing.
Al Los Angeles City College conobbe un fotografo che lo convinse a fare un provino, grazie al quale ottenne un contratto con la Universal. «Facevo sempre il secondino che porta il criminale dal procuratore distrettuale. Prendevo settantacinque dollari a settimana, quaranta settimane all’anno, ma dopo un anno e mezzo mi hanno licenziato; ormai però ero deciso a tentare la carriera. Mi hanno rimbalzato da un ufficio di collocamento all’altro per un bel po’, ma alla fine sono approdato in televisione interpretando un sacco di delinquenti in motocicletta e assistenti di laboratorio, ma mai qualcuno che indossasse un completo elegante.
«Ero quasi pronto a smettere quando è arrivato Gli uomini della prateria. Ero andato a trovare un amico alla cbs e uno dei manager mi ha notato mentre bevevo un caffè alla mensa, è venuto da me e mi ha chiesto di fare un provino. È stato un colpo di fortuna che è durato sette anni e mezzo. Al sesto anno avevo ormai esaurito tutto quello che si poteva fare a cavallo, quindi mi sono preso una pausa e sono andato in Spagna a girare Per un pugno di dollari. Non avevo niente da perdere. Avevo un lavoro in tv che mi aspettava e sapevo che se il film fosse stato un fiasco non l’avrebbe comunque visto nessuno». 
E invece lo videro in tantissimi. Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, meglio noti come «la trilogia della paella», divennero un’istituzione camp. «Non erano film per cui si viene acclamati dalla critica», spiega Eastwood, serissimo, «ma sono stati molto più difficili da girare di tanti dei ruoli migliori che ho interpretato di recente. Col senno di poi li considero delle satire, difficilissime da interpretare senza scadere nell’effetto slapstick; e poi osservando gli italiani ho imparato a far sì che pochi dollari sembrassero dieci volte tanti sullo schermo».
I western italiani erano remake di film epici giapponesi sui samurai, girati in Spagna con attori americani da un regista italiano, ma sono stati i mattoni delle fondamenta del fenomeno da botteghino noto come Clint Eastwood. Per essere un simbolo di Hollywood, stranamente non ci ha mai girato un film.
Dei dodici della sua carriera, dieci sono stati girati nelle varie location e gli altri due hanno utilizzato teatri di posa solo per alcune scene di interni. E poi Eastwood non conduce una vita hollywoodiana.
Estremamente riservato, quand’è a Los Angeles si rintana su un’altura con vista sulla San Fernando Valley, mentre a Carmel in un piccolo rustico a strapiombo sul mare, con la moglie Maggie e il figlio Kyle, di due anni e mezzo. «Sono sposato con la stessa donna da diciassette anni. Meglio che mi controlli il battito cardiaco. Ha vissuto tutti i miei cambiamenti e non mi ha ancora cacciato di casa, quindi penso che resterò nei paraggi.
Solo adesso sto cominciando a capire chi sono e cosa sono in grado di fare. So che non sarò mai Laurence Olivier.
«Con la mia corporatura e la mia voce, non interpreterò mai certi ruoli, ma posso comunque fare cose di una certa qualità. Non ho mai studiato recitazione. Vivere e fare film equivalgono a studiare. Ci sono due tipi di attori: uno che se ne sta seduto nel camerino in attesa di una chiamata e l’altro che si butta nell’ambiente e affina la tecnica assorbendo tutto. Non so abbastanza e non imparerò mai tutto quello che ho bisogno di imparare. Se si pensa di aver già imparato tutto, si può solo regredire».
Clint Eastwood stacca i tronchi d’albero che ha per gambe dalla sedia raffinata su cui è piazzato e fa quel sorriso da cowboy che l’ha reso una star. «Pensavo che Geraldine Page fosse fuori dalla mia portata, visto che è una grossa star di Broadway e tutto il resto, ma quando abbiamo iniziato a girare La notte brava del soldato Jonathan, mi ha detto che era una mia grande fan ai tempi degli Uomini della prateria. Non ho rimpianti, proprio nessun rimpianto».