Tuttolibri, 2 novembre 2019
Quarant’anni di interviste a Clint Eastwood
Per tanti critici Clint Eastwood rimane un oggetto misterioso. E il suo mistero e il suo fascino ricordano un po’ quanto Jean-Luc Godard scriveva negli anni Sessanta su John Wayne. Wayne, secondo Godard, racchiudeva in sé il segreto e il fascino che il cinema americano sapeva proporre: come poteva infatti lo stesso Godard odiarlo senza attenuanti per le sue dichiarazioni a favore della guerra in Vietnam ma amarlo alla follia quando nel film Sentieri selvaggi sollevava la piccola Nathalie Wood e la alzava verso il cielo? Per Clint valgono un po’ gli stessi paradigmi, visto che il suo monologo rivolto a una sedia vuota dove immaginava sedesse Obama durante il congresso dei Repubblicani fu considerato becera propaganda di destra, che però poco si sposa con le dure accuse al razzismo presenti in Gran Torino o in Invictus.
E pensare che Clint Eastwood è una persona molto disponibile a parlare, a farsi intervistare e a esporre con semplicità il suo pensiero: la stessa semplicità che ritroviamo nel modo di girare i suoi film e anche (soprattutto) nel concepimento dei film stessi, pensati per costare poco ed essere girati velocemente. L’occasione di verificare tutto ciò ci è fornita da Clint Eastwood. Fedele a me stesso, il volume di Minimum Fax curato da Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz che raccoglie molte interviste rilasciate da Eastwood tra il 1971 (anno del suo esordio alla regia) e il 2011. Una straordinaria carrellata nella quale Clint si conferma l’ultimo dei classici hollywoodiani, e la sua filosofia di cinema (ma anche di vita) traspare con chiarezza e con semplicità.
Sui classici del cinema americano ha idee molto precise: John Ford e Howard Hawks erano grandi registi irascibili, proprio come Don Siegel e San Peckinpah. Per rimuovere le cause che li avevano resi tali, per non soffrire come loro, Eastwood ha deciso di diventare anche produttore di se stesso con la sua società Malpaso. Una voglia di indipendenza che è anche alla base del suo passaggio alla regia: «Dopo diciassette anni passati a sbattere la testa contro il muro, ad aggirarmi per i set, magari a influenzare il posizionamento della cinepresa con le mie opinioni, a guardare gli attori che subivano di tutto senza alcun aiuto e a lavorare con registi bravi e scadenti, sono arrivato al punto in cui sono pronto a girare i miei film». Quindi un’evoluzione naturale, senza colpi di scena e senza esibite volontà autoriali: semplicemente, un modo per lavorare meglio e far lavorare meglio chi lo circonda.
Il riconoscimento autoriale gli è poi arrivato, eccome. Gli Oscar, il Leone d’oro alla carriera, la prestigiosa cineteca francese che gli dedica una personale completa. Eastwood non dimentica gli inizi decisamente difficili, quando in casa c’erano pochi soldi e lui portava a casa qualcosina con piccolissimi ruoli tipo il tecnico di laboratorio in Il ritorno del mostro della laguna nera. E non dimentica neanche i suoi fallimenti commerciali, uno in particolare, La notte brava del soldato Jonathan che ha fatto dirigere all’amico Don Siegel e che rimane uno dei più bei film degli anni Settanta surclassando il recente remake di Sofia Coppola, L’inganno. «E’ l’unico film in cui il mio personaggio non trionfa. (…). Forse non poteva avere successo proprio perché l’eroe falliva. (…) Albert Maltz aveva scritto un copione con un lieto fine. Io e Don Siegel pensavamo invece che il finale del romanzo fosse molto più convincente.(…) Decidemmo di andare avanti e di restare fedeli alle nostre convinzioni».
Quando poi gli chiedono perché i suoi film sono così diversi l’uno dall’altro, la sua risposta è al tempo stesso semplice ed affascinante: «Ho sempre pensato che ogni film imponga la propria vita, il proprio ritmo. (…) Anche Hawks poteva dirigere Il fiume rosso da una parte e La signora del venerdì dall’altro con ritmi e punti di vista quasi opposti. La mia filosofia registica mi è sempre sembrata molto simile».
A differenza di molti registi, Clint Eastwood dimostra di seguire il cinema contemporaneo e di interrogarsi su cosa stia cambiando: «Penso che l’influenza della televisione abbia cambiato la percezione dei film. C’è tutta una generazione, quella di MTV, che vuole che le cose siano sempre in movimento. Non ci si ferma mai, non si torna mai sui propri passi». E questa voglia di riflessione caratterizza anche uno dei suoi film più belli, Mystic River, prodotto dalla Warner contemporaneamente alla saga di Matrix: «Sul set di Mystic River scherzavo molto sul fatto che il mio miglior alleato fosse Matrix. La Warner Bros stava producendo le ultime due parti della trilogia e si era dimenticata del mio film. Mi hanno lasciato solo. Per loro era un film a basso costo». E poi prosegue raccontando di essersi ispirato alla grande tradizione Warner di film d’azione su sfondo sociale, citando due colossi come Humphrey Bogart e James Cagney.
Insomma, mistero e fascino di un uomo di cinema: capace di rispondere a uno spettatore che gli diceva entusiasta che Gran Torino era il primo film della generazione Obama: «Io sono nato con la presidenza Hoover», salvo poi descrivere Edgar J. Hoover nel film interpretato da Leonardo Di Caprio come un nevrotico omosessuale…