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 2019  novembre 02 Sabato calendario

La raccolta di racconti di Clarice Lispector

Sono io stessa troppo sangue per dimenticare il sangue e per me la parola spirituale non ha senso e nemmeno la parola terrena ha senso». Questa dichiarazione, contenuta nel racconto Perdonando Dio, esprime il modo di stare al mondo, ossia di scrivere, di Clarice Lispector, con il paradosso e l’enigmaticità che caratterizzano l’autrice di origine ucraina naturalizzata brasiliana, la più importante della letteratura di lingua portoghese del Novecento, e una delle mie più amate. 
A parlare è qui una donna, come spesso accade nei testi di Tutti i racconti (tradotti da Roberto Francavilla, eccetto quelli della raccolta Legami familiari, che mantiene la traduzione di Adelina Aletti): a volte monologhi, a volte storie in terza persona con un’esile ma folgorante drammaturgia, altre volte istantanee in cui la banalità di un gesto, di una visione, assume la potenza traumatica dell’evento, dell’epifania. Sono donne sul bordo di una catastrofe, alcune abbandonate dagli uomini, molte pronte ad abbandonarli, a liberarsi di quei mariti che con la loro presenza rendono «impacciati» i pensieri delle mogli, ad allontanarsi da quelle figure maschili (come il Daniel di Ossessione) che accettano con logica il nonsenso dell’esistenza, soffocando l’impulso alla vitalità, innocente e insieme diabolico, che queste donne esprimono.
Il nonsenso dell’esistenza è al cuore della narrativa di Clarice Lispector, ma dalla prospettiva dell’infamia che Dio ha compiuto creando il mondo e dimenticandosene: impossibile da accettare. Lo stupore di fronte alla Creazione, che genera vertigine, tanto è incomprensibile e persino impronunciabile, costringe queste donne a un’inesausta ricerca del segreto che essa racchiude. Le protagoniste si pongono domande che non possono avere risposta, come fanno i bambini; e, proprio perché non smettono di interrogarsi neppure con l’età adulta, rischiano il delirio, la follia, di certo la sensazione di abitare un altrove irraggiungibile dagli altri, come la Laura de L’imitazione della rosa, uno dei racconti più belli che abbia mai letto. Il titolo ricalca L’imitazione di Cristo, il libro di religione cristiana occidentale più diffuso dopo la Bibbia, che insegna ai fedeli a perseguire la via ascetica – ma Cristo, viene detto qui, è «la peggiore tentazione» (e un altro racconto osa affermare: «era più facile essere un santo che una persona!»). 
Sono ardenti, le donne di Lispector, sentono la natura penetrare in ogni loro fibra al solo aprire la finestra, si confessano fisiche, affamate di vita, vorrebbero morire a novant’anni nel bel mezzo di un atto vitale, sperimentano felicità insostenibili ed estasi di tristezza, desiderano tutto, non riescono a non desiderare. Il desiderio è la molla inesauribile della vita animale, anche se «vivere è una ferita aperta», e allora queste donne si chiedono se di ardere valga la pena, ma non possono comunque sottrarsi, e perciò in diversi racconti desiderare corrisponde a una forma di umiliazione (come nel bellissimo La legione straniera), e la speranza è il vero peccato. «Vedere la speranza mi atterriva, vedere la vita mi dava il voltastomaco» – dice Sofia, ricordando di quando a nove anni era attratta e al contempo ripugnata dal suo professore con le spalle ricurve – perché la vita che nasce, la materia inerte che «lentamente tenta di alzarsi», è uno spettacolo più sanguinoso della morte.
Eccolo, il nodo di tutta l’opera di Clarice Lispector: un misticismo non verso Dio, ma verso l’«avida materia» da Dio creata, verso la natura indistinta da cui l’individuo – unico, irripetibile – è stato separato, verso quel «fango di secoli» nel quale sprofonda la protagonista del romanzo La passione secondo G.H. – il mio preferito – quando ingerisce la sostanza emersa dalla ferita di una blatta che lei stessa ha schiacciato, e si fonde così con l’immondo, con l’impuro («la nostra più profonda nostalgia»), con la materia ancora senza confini e senza identità. 
Nella produzione di Lispector gli animali rappresentano l’ottuso, costante brulicare della vita: «Orrore, orrore», esclama Ana in Amore, rievocando Cuore di tenebra, assediata come si percepisce da quell’esistere silenzioso che persevera tutt’attorno. Mosche che distraggono una donna in procinto di partorire, ratti schiacciati che rivelano lo scandalo della morte e riaccendono in chi li incontra uno stato di allarme sempre latente, galline che non possono essere curate dall’essere galline come gli umani dall’essere umani, però hanno la grandezza di deporre l’uovo. Un uovo che, nel momento in cui lo guardi, è già reminiscenza, è un uovo di tre millenni fa, è l’origine: «di uovo in uovo si arriva a Dio». La gallina non sa di avere al suo interno la forma perfetta, ed è questa la sua salvezza: lei sopravvive e basta. Noi esseri umani invece non possiamo solo sopravvivere, la coscienza di esistere ci condanna, è la nostra malattia.
Similmente alle donne che narra, Clarice non cessa di domandarsi che cosa significhi esistere, al di là del cuore che batte nel petto, che cosa significhi essere un io, e oscilla di continuo tra l’urgenza di capire e il desiderio di abbandonarsi. In questi racconti dalla struttura sovversiva, che montano come un’arrampicata verso la cima, da dove si spera di scorgere la verità, che si inerpicano nel flusso di pensieri (associazioni inconsce, intuizioni verbali, prossime all’abisso per cercare di guardarci dentro), che si lasciano travolgere dal vortice di una lingua che scova aggettivi sempre inconsueti, formule sintattiche inattese, in questi racconti che si interrompono all’improvviso, come davanti a una soglia impossibile da valicare, come se il fiato si spezzasse, ho riscoperto tutto intero il prodigio di Clarice Lispector che mi incantò vent’anni fa. La scrittura carnale e metafisica, la sua religiosità eretica, l’indignazione verso una natura di stampo leopardiano contrapposta a un’allegria praticata come rivalsa, una vendetta dichiarata a Dio, il sentimento remoto di una colpa – probabile eredità della cultura ebraica da cui lei proviene – e il «tortuoso amore» verso ogni creatura, ciascuna marcescibile. Soprattutto, la fede nel linguaggio, spinto al suo estremo per superare il limite dell’indicibile, anzi dell’inconcepibile, perché, anche se si ostina, la mente non riesce a coglierlo. È un tentativo destinato a restare vano, quanto il bisogno di assoluto che è proprio dell’uomo, ma perciò è così affascinante. 
Leggendo questi racconti, l’uno dopo l’altro, vi sentirete avvolti e un po’ storditi, quasi aveste spiato da un varco qualcosa che non sapete più descrivere, che per un attimo vi ha reso testimoni di una dimensione ignota del vostro stesso pensiero. E vi convincerete che alla letteratura – quella grande – non si può chiedere di meno.