Il Messaggero, 2 novembre 2019
La battaglia di El Alamein
Domani ricorre un anniversario che per ogni italiano dovrebbe esser motivo di orgoglio e di dolore. Il 3 Novembre 1942 i nostri soldati affrontarono con le bombe a mano i carri armati inglesi, nella battaglia di El Alamein. Fu un esempio straordinario di eroismo in una guerra assurda, condotta ad armi impari contro il nemico sbagliato. Anche per questo è bene mantenerne la memoria. Ma veniamo a quella fase cruciale della guerra.
Sino a quel momento la Gran Bretagna aveva collezionato solo sconfitte: in Europa le sue truppe si erano salvate per un pelo con il reimbarco a Dunkerque, un successo che comunque mascherava una disfatta. Come disse Churchill: «Le guerre non si vincono con le ritirate». In Oriente erano cadute quasi tutte le basi navali e, in Africa, Rommel era arrivato alle porte del Cairo. Tuttavia questa apparenza occultava una realtà che stava cambiando. Nel Pacifico gli americani avevano fermato i giapponesi a Midway e i Russi stavano accumulando riserve per intrappolare i tedeschi a Stalingrado. La marea nazista avanzava sempre più lentamente, e forse si era fermata. Per invertirne il corso, mancava una vittoria terrestre: e questa venne ad El Alamein.
Nel Nordafrica Rommel aveva indebolito il suo Afrikakorps con un’arditissima galoppata nel deserto iniziata in giugno, allontanandosi dalle basi di partenza e compromettendo il flusso dei rifornimenti. Kesselring, comandante dell’area Mediterranea, suggeriva cautela, e magari la conquista di Malta, che costituiva una insidiosa retrovia. Rommel convinse Hitler a puntare direttamente sul Cairo, e il Führer gli diede ragione, senza peraltro dargli i mezzi necessari. Quando, nel Luglio del 42, la Volpe del deserto puntò su El Alamein, poteva contare su risorse materiali e umane già inferiori a quelle britanniche.
INTRINSECA DEBOLEZZA
Nonostante questa intrinseca debolezza, Rommel decise di attaccare. Il suo avversario, il generale Auchinleck, non era un genio della strategia ma era un professionista preparato. Parò il colpo e dopo un mese Rommel era al punto di prima, ma a corto di carburante e quasi senza carri armati. Hitler gliene mandò un centinaio; gli inglesi ne ricevettero più di mille. Rommel si rese conto che un’offensiva fallita, in quelle circostanze, equivaleva a una sconfitta. Il suo morale ne risentì, si ammalò e tornò a curarsi in patria. I generali Stumme e von Thoma, che lo sostituirono, si trovarono con un esercito logorato nelle risorse e nel morale.
LA CONTROFFENSIVA
Nel frattempo Churchill insisteva per una controffensiva. L’armata britannica era composta di neozelandesi, indiani, australiani e sudafricani, più vari contingenti di francesi, polacchi e altre formazioni di governi europei in esilio. Il loro nuovo comandante, Bernard Law Montgomery, era un asceta segaligno e virtuoso che attaccava solo quando godeva di una schiacciante superiorità di uomini e mezzi. Malgrado le perdite subite, questi continuavano ad aumentare, attraverso massicci aiuti spediti dall’America. I nuovi carri armati Sherman erano migliori di quelli schierati dai tedeschi e, manco a dirlo, surclassavano quelli italiani. Per l’aviazione, il rapporto era di cinque a uno. Ma la differenza decisiva stava nella benzina. Monty ne aveva a volontà, i tedeschi la centellinavano col contagocce. Quanto ai viveri, il confronto non era nemmeno ipotizzabile. I nostri bevevano acqua sporca, che provocava tifo e dissenteria. Gli inglesi avevano il tè, e persino la birra ghiacciata.
CAMPI MINATI
Il 23 Ottobre 1942 Montgomery ruppe gli indugi. Milleduecento cannoni riversarono sulle linee italo tedesche un inferno di fuoco, ma la difese ressero bene. Rommel aveva disposto campi minati a serpentina che attenuarono l’avanzata nemica. I britannici perdettero molti uomini e quasi duecento carri, che furono subito sostituti. Montgomery, imperturbabile, cercò dei varchi meno insidiosi sapendo che, vista la differenza di forze, prima o dopo li avrebbe trovati. La dote maggiore di questo condottiero, scrisse Liddell Hart, era proprio quella di saper adattare la tattica al mutar delle circostanze, con brillante duttilità. Il punto debole fu individuato nella zona di congiunzione delle forze tedesche e italiane, dove il 3 Novembre la 51ma divisone Highland e la Quarta indiana, lanciarono un attacco massiccio con un rapporto di mezzi corazzati di 20 a 1. Il fronte fu sfondato, e i tedeschi iniziarono la ritirata.
Era la prima disfatta dell’invincibile Wehrmacht. Altre catastrofi, ben più colossali e decisive l’avrebbero decimata a Stalingrado e a Kursk, in Normandia e nelle Ardenne. Ma El Alamein fu comunque la prima grande vittoria sul campo degli Alleati, ed era giusto che toccasse proprio agli inglesi che nel 1940 avevano resistito da soli. Churchill potè andarne fiero, e per l’occasione coniò una delle sue arguzie più celebri: «Questa – disse – non è la fine; e non è nemmeno l’inizio del la fine. Ma almeno è la fine dell’inizio».
STUPORE
In questa epica battaglia, gli italiani si comportarono bene. I nostri bersaglieri e i paracadutisti stupirono alleati e avversari per l’ardimento e la tenacia nell’affrontare con le bombe a mano l’avanzata dei carri armati. Tutti, da Rommel a Churchill, ebbero (per la prima volta) parole di ammirazione per i leoni della Folgore, anche se non si comportarono con la stessa cavalleria: gli inglesi, nostri nemici, ci concessero l’onore delle armi, e il loro comandante ricevette rispettosamente il nostro generale. I tedeschi ci rifiutarono qualsiasi aiuto, e in qualche caso si impadronirono del poco carburante che avevamo. Anche l’ammirazione di Rommel svanì presto: di lì a poco avrebbe pianificato l’invasione dell’Italia dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943. L’anno successivo, sospettandolo di aver partecipato alla congiura del 20 Luglio, Hitler lo avrebbe costretto al suicidio.
Oggi El Alamein ospita sacrari, musei e cimiteri, che sono ancora meta di pellegrinaggi commoventi e devoti. Al netto della consueta retorica che contrassegna le lapidi e i sacelli di ogni tipo, non si può evitare l’emozione davanti alle spoglie dei nostri valorosi soldati. Ma restiamo perplessi davanti alla scritta Mancò la fortuna, non il coraggio. Perché è verissimo che non mancò il coraggio. Ma non è vero che sia mancata la fortuna. Mancò invece il senno di chi mandò alla morte dei ragazzi con i fucili di latta e le scarpe di cartone. Un vizio tutto nostro, che purtroppo anche oggi, sia pure in altri ambiti, stenta a scomparire