Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2019
Libano,storia della crisi economica e politica
«Nei prossimi giorni dobbiamo trovare una soluzione per ripristinare la fiducia ed evitare il collasso». Riad Salemeh non è solo il governatore della Banca centrale del Libano. È considerato il gran visir della sua economia. È un tecnico dai toni pacati, molto apprezzato all’estero, incline alla prudenza. Se dunque esprime preoccupazione, fino ad accennare a un collasso, come ha fatto in un’intervista recente, significa che la situazione è seria, molto seria.
Da 19 giorni centinaia di migliaia di libanesi sono scesi in piazza a protestare, paralizzando il Paese. Da Nord a Sud lo slogan è lo stesso. «Killun, yani killun» (Tutti, vuol dire tutti). Che siano sciiti, sunniti, cristiani o drusi. Per la prima volta la protesta ha assunto una dimensione trasversale e multi-confessionale in un Paese in cui vige una rigida spartizione dei poteri in base alle confessioni (il presidente deve essere cristiano, il premier musulmano sunnita e il capo del Parlamento musulmano sciita).
Pacificamente, ma con determinazione, i libanesi protestano. Contro la corruzione, endemica. Contro i blackout programmati, che privano per 3-6 ore al giorni gli abitanti di Beirut dell’elettricità (fino a 10 ore fuori dalla capitale). Contro lo sfascio in cui versano i servizi pubblici. Non accettano che a gestire l’introduzione delle necessarie riforme sia la stessa classe politica che si è alternata al governo negli ultimi 30 anni. Non possono tollerare che le maggiori banche continuino a macinare profitti su profitti.
Il Libano non è uno solo. Ci sono due realtà, una accanto all’altra. C’è il Libano dei ricchi, quell’1% della popolazione che detiene il 25% della ricchezza. E quello dei libanesi normali (di cui 1/4 vive con meno di 5 dollari al giorno). Costretti a pagare per ricevere in cambio pessimi servizi. Quando si tratta di fisco, il Governo diviene estremamente egualitario. Il sistema fiscale (circa il 60% delle entrate fiscali è costituito dal pagamento dell’Iva) si basa in larga parte sulla tassazione indiretta, applicata dunque ai beni di consumo. Tasse che colpiscono tutti allo stesso modo, ricchi e poveri.
I motivi del malcontento sono soprattutto economici. Se la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la contestata tassa sulle chiamate di WhatsApp, in verità il vaso era colmo da tempo. Dal 1990 il debito pubblico si è gonfiato a dismisura, crescendo del 2mila per cento, e arrivando al 152% del Pil. Il piccolo Libano è divenuto il terzo Paese al mondo per il peggior rapporto debito/Pil. Fosse solo questo. Questo Paese, che si regge sul sistema bancario e sui servizi, consuma molto più di quello che produce. Il deficit delle partite correnti è balzato al 25% del Pil. Il tessuto imprenditoriale è sempre più in difficoltà. «Il cronico problema energetico – spiega Francesca Zadro, direttrice dell’Ice di Beirut – rende la competitività delle aziende libanesi più bassa rispetto a quelle di altri Paesi della regione. La prima voce dell’import libanese sono gli acquisti di idrocarburi. In aprile il Governo ha approvato un piano energetico nazionale, una “road map” che prevedeva la realizzazione di centrali elettriche e di centrali a ciclo combinato, in tempi serrati. Ma poi è scoppiata la crisi».
A questo preoccupante quadro si accompagna un Pil che galleggia su valori non lontani dallo zero. E che quest’anno e il prossimo non dovrebbe superare lo 0,3%. È una novità per il Libano, la cui economia può vantare una sorprendente resilienza alle crisi. Dal 2006 al 2009 la crescita media è stata del 9%, una performance a cui ha contribuito un settore bancario molto dinamico. «I depositi totali nel Paese – spiegava nel maggio 2018 al Sole 24 Ore il governatore Riad Salameh – superano di oltre tre volte il Pil. Grazie anche alle rimesse dei libanesi all’estero, che sono il 15% del Pil».
La storia recente del Libano è costellata di turbolenze. Dall’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri, nel 2005, alla devastante guerra tra Hezbollah e Israele (2006), passando per la stagione degli attentati e degli scontri tra filo-siriani e anti-siriani (2006-2009). Tutte superate brillantemente (dal punto di vista economico). La guerra scoppiata in Siria nel 2011 ne sta invece mettendo a dura prova l’economia. I rifugiati sono circa un milione e mezzo. Uno ogni quattro abitanti. Un primato mondiale. Un fardello insostenibile sui servizi pubblici. Sarebbe come se l’Italia si risvegliasse con una guerra accanto e con 15 milioni di rifugiati in pianta stabile sul suo territorio. «Stiamo indubbiamente vivendo una fase di incertezza. Ma la fiducia nel sistema bancario libanese, che finora ha mantenuto l’ancoraggio della valuta locale al dollaro, è ancora forte – continua Francesca Zadro-. Nonostante la crisi in corso, nel 2019 le rimesse degli espatriati dovrebbero restare superiori ai 7 miliardi di dollari. Le riserve della Banca centrale sono a un livello sufficiente per mantenere questo ancoraggio che, per quanto mi risulta, non ha pari, quanto a durata, in nessun Paese al mondo». Per quanto ancora considerate solide, le riserve si stanno tuttavia erodendo. Erano 36,8 miliardi di dollari nel 2017,lo scorso mese sono scese a 30,6 miliardi. Non solo. Per la prima volta in 10 anni, l’afflusso di depositi è entrato in territorio negativo. Il deficit, poi, è in profondo rosso. I tre maggiori capitoli di spesa restano sempre il servizio dal debito, il pagamento dei salari ai dipendenti pubblici e i trasferimenti alla compagnia elettrica nazionale (Edl). Per placare il malcontento, il premier Saad Hariri aveva proposto una cura-anti deficit, abbattendolo dall’attuale 8,3% del Pil allo 0,6% nel 2020. Ottenuto grazie a una massiccia tassa sulle banche commerciali e a finanziamenti dalla banca centrale. Non ha funzionato. Ha dunque deciso di dimettersi.
Dopo oltre due settimane ieri le banche sono state riaperte. Ma i clienti si sono ritrovati con delle sgradite sorprese. I prelievi e i trasferimenti dai depositi sono spesso limitati. Non è un buon segno per un Paese che ha fatto dei depositi la spina dorsale della sua economia.