Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2019
I beni rifugio non proteggono più
Li chiamano beni rifugio. Ma il nome – che trasmette all’investitore medio un senso di pace e tranquillità – può ingannare. Numeri alla mano oggi ci si può scottare anche con Bund, Treasury, yen, franco svizzero, dollaro e oro, ovvero con gli asset finanziari che sono storicamente annoverati nella categoria dei porti sicuri. Proprio come è accaduto negli ultimi due mesi quando questi strumenti si sono mediamente svalutati del 3-4%, dimostrando peraltro una volatilità elevata, in altri tempi accostabile solo a classi considerate più rischiose come le azioni.
È infatti vero che quando le cose si mettono male e la paura la fa da padrona tra gli operatori finanziari i beni rifugio tendono a salire, forti della crescente domanda di investitori. Il punto – spesso sottovalutato – è che però nei momenti in cui le cose vanno bene questi asset definiti sicuri rivelano una forte fragilità di fondo: piuttosto che starsene tranquilli, perdono terreno. Trasformandosi in una fonte di perdita. Perdendo quindi lo standing di investimenti che tutelano i capitali.
Un esempio eclatante arriva dalla cronistoria degli ultimi due mesi. A fine agosto i mercati scontavano una serie di scenari sfavorevoli (escalation della guerra dei dazi tra Cina e Usa, ipotesi di hard Brexit, rallentamento economico globale accentuato da una sempre più vicina recessione negli Usa). Non a caso tra il 27 e il 28 agosto i beni rifugio citati hanno toccato dei picchi. Il rendimento del Bund a 10 anni è arrivato sino a -0,71%, il livello più basso di tutti i tempi. Allo stesso tempo il rendimento dei Treasury Usa a 10 anni scivolava, per la prima volta, sotto l’1,5%. Mentre il dollaro si rafforzava su tutte le principali valute come certificato dal dollar index – un parametro ponderato che ne sintetizza l’andamento con un paniere composto dalle altre più grandi valute al mondo – che è tornato ad avvicinarsi a quota 100. Forti acquisti anche su yen, il bene rifugio valutario per eccellenza e considerato una sorta di bancomat mondiale dagli investitori per le operazioni di carry trade. E poi anche l’oro – considerato il bene rifugio di ultima istanza – ha toccato nuovi massimi di periodo in area 1.550 dollari (nonostante la concomitante forza del dollaro). Bene, chi avesse puntato appena otto settimane fa su questi beni, oggi si troverebbe il portafoglio tutt’altro che al riparo. Il Bund – il cui rendimento nel frattempo è quasi raddoppiato riposizionandosi a -0,35% – è arrivato a perdere fino al 4%. Stesso discorso per il Treasury il cui tasso è tornato all’1,71% e il cui prezzo (che si muove in direzione opposta ai tassi) ha perso il 3,5%. Movimento analogo per l’oro che a fine ottobre è sceso sotto i 1.500 dollari dimostrando una volatilità di breve periodo superiore persino a quella delle Borse (misurata, si veda il grafico in pagina, dall’indice Vix di Wall Street). Anche lo yen ha perso terreno, quasi il 3% nei confronti di un dollaro che a sua volta ha perso (dollar index) il 2% sulle principali divise. Anche il franco svizzero si è indebolito nei confronti dell’euro e del dollaro. Ma c’è chi da tempo non considera più la divisa elvetica un bene rifugio, considerata la volatilità. Basti pensare che tra il 2015 e il 2017 è arrivata a perdere il 20% sull’euro per poi recuperare 10 punti.
Questa carrellata di dati ed esempi dimostra che con la nuova era dei tassi bassi – alimentata dal botta e risposta di politiche accomodanti delle banche centrali globali con evidenti impatti su bond e valute – persino i beni rifugio sono diventati più instabili. Questi strumenti oggi proteggono sì dalle tempeste. Ma è una protezione che rischia di costare cara quando, e per fortuna, la tempesta passa.