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 2019  novembre 02 Sabato calendario

Intervista a Eva Riccobono

Dalle passerelle al palcoscenico. Non sono molte le top model che hanno osato questo passo. Il cinema, sì. Ma il teatro… Famosa per la bellezza altera e aristocratica, tra le indossatrici più richieste al mondo, e una delle pochissime italiane, eppure al Teatro Franco Parenti di Milano nel dramma di David Harrower Coltelli nelle galline abbiamo visto una Eva Riccobono irriconoscibile nella parte di una povera contadina illetterata, scarmigliata, senza trucco, vestita di stracci. Una sfida vinta a pieni voti: «Ha come un’aura», dice di lei Andrée Ruth Shammah, che l’ha diretta e fortemente voluta.
Niente sfilate per lei all’ultima settimana della moda. Non le è mancata quell’atmosfera, quella frenesia?
«Per niente. Ho 36 anni. Si è chiuso un ciclo della mia vita. Mi fa tristezza quando non vedo evoluzione nelle persone, certe colleghe che continuano come dieci, venti anni fa. Rispetto a quando ho iniziato il mondo della moda è diventato irriconoscibile. Se ho una nostalgia è di quei tempi: l’Haute Couture parigina, Franca Sozzani, Ferrè... Resta solo Re Giorgio».
Ha reso il passaggio dalla passerella al palcoscenico quasi naturale.
«Che tu sia attrice o modella, devi sempre interpretare un personaggio. La modella interpreta un abito; e lo stilista è il suo regista».
Come vi siete incontrate lei e Shammah?
«Sei anni fa, a casa di amici. È subito nato un feeling tra donne. Ho sempre amato il teatro ma mai averi pensato di bussare alla sua porta. Andrée mi ha convinta a partecipare a un suo laboratorio: penso che volesse testarmi. Io non mi sentivo all’altezza: ho rispetto per il teatro e le persone che lo fanno. Ha insistito: "Hai una presenza scenica importante". Dopo il laboratorio è venuto uno spettacolo sulla follia. Proposte ne avevo già avute, ma le avevo rifiutate: sentivo che volevano solo usare il mio nome. Con lei invece mi sono sempre sentita sicura. E oggi guardo a lei con occhi a forma di cuore». 
Lo spettacolo parla anche del ruolo della donna, seppure in una società arcaica.
«Il cliché sopravvive: la donna non parla, annuisce di quello che dice il suo uomo, viene trattata con sufficienza. Per conquistare la nostra identità dobbiamo ancora scalciare». 
Lei scalcia?
«Hanno costruito per me un’immagine elegante ed eterea: la gente mi crede così. Aristocratica, distaccata, fredda. Invece non lo sono affatto. Sono sempre stata una specie di maschiaccio. Mi sono evoluta, ma non cambiata rispetto all’Eva ragazzina a Palermo».
E come si sentiva quella Eva?
«Un pesce fuor d’acqua. Fisicamente non c’entravo niente con le altre ragazze. Alta, senza seno, camminavo curva, mi tingevo i capelli. Ero un po’ grunge. Fare la modella è stato terapeutico: ho acquistato consapevolezza, a non vergognarmi del corpo».
Una ragazzina così come diventa una delle modelle più celebri al mondo?
«Per caso. Un giorno per strada sento uno che mi dice "Can I take a picture?". Era Bruce Weber, un nome che allora non mi diceva assolutamente nulla (con lui avrei poi fatto decine di servizi fotografici e un Calendario Pirelli). Da lì una serie di incontri magici: non c’era fotografo di moda che, in trasferta a Palermo (ed erano molti), non mi volesse. Avevo un portfolio da top model, ma nessuna esperienza né un’agenzia». 
Milano e la moda: lei è nella serie «Made in Italy» (in streaming su Amazon Prime e nel 2020 su Canale5). 
«È ambientata negli anni in cui si imponevano i nostri più grandi stilisti. Interpreto il ruolo di un’ex modella molto sopra le righe. Per ora è una parte di contorno, ma nella seconda stagione lavorerà stabilmente nella redazione del giornale che è al centro della serie».
Palermo, poi Milano, e ora Londra. Come ci si sta ai tempi di Brexit?
«Dopo sei anni, come molti altri, sto pensando di tornare in Italia. Londra ha subìto la Brexit. Proprio non capisco come sia potuto accadere. O meglio, sì: questo capita quando si dà voce al popolo e questo non ha capito le conseguenze o è stato male informato. Che è proprio quello che è accaduto, purtroppo».