la Repubblica, 2 novembre 2019
Storia dei rapporti tra l’uomo e il cane
Il selfie col cane, si sa, funziona sui social come il miele con gli orsi. Figuriamoci poi se è il Presidente degli Stati Uniti a farsi immortalare mentre conferisce la medaglia a Conan, eroe nello stanamento di Al Baghdadi. Peccato solo che la foto tweetata da Donald fosse un clamoroso montaggio, assemblato riutilizzando un altro scatto con il nostro in vena di onorificenze. Per la serie: cosa non si è disposti a fare pur di sfruttare la scia emotiva dell’amico a quattro zampe. Che poi, l’episodio cade giusto nella zona rossa dei 70 anni da quando Konrad Lorenz diede alle stampe E l’uomo incontrò il cane … ma c’è davvero bisogno della gaffe di Trump o dell’ennesimo anniversario per qualche riflessione su Fido?
Basta aprire i social per percepire quanto il cane sia ormai diventato un tassello di importanza cruciale nel nostro puzzle emotivo, con ricadute inimmaginabili ai nastri di partenza: Lorenz ipotizzava che il primo legame fra la tribù umana e la progenie dello sciacallo si dovesse al caso fortuito di una qualche bambina che, nella notte dei tempi, si era intenerita per un cucciolo smarrito, reclamandolo come compagno di giochi. Così scoccò la scintilla: Pluto si infiltrò travestito da bambolotto preistorico. Peccato solo che il Paleolitico non fosse molto pet-friendly, per cui fu subito chiaro che il piccoletto, se proprio voleva restare, doveva guadagnarsi la razione di cibo. Fu così che qualche adulto elaborò per lui le più disparate mansioni di guardiano, facchino, traina-slitte, cacciatore e pastore di bestiame. E sia: il patto funzionava. Per secoli il cane è rimasto questo: un lavoratore indefesso e al tempo stesso un tenero ospite con doti empatiche sempre più affinate, per cui già nell’ Odissea è proprio Argo a riconoscere per primo Ulisse (che per lui piange, di nascosto). Da allora, però, quanta strada. Perché il buon Argo, non scordiamolo, viene ritratto da Omero fra zecche e letame, sulla soglia della stalla. Una zampata dopo l’altra, però, monsieur- le-chien si è meritato un domicilio fra i velluti del palazzo: Peritas era il molosso di Alessandro Magno, Blondi la fedele cagna del Führer, Trick il barboncino di Pertini, Fala il celebratissimo scottish terrier di Roosevelt, mentre il mito narra di un incontro bilaterale fra Russia e Germania durante il quale zar Putin fece sadicamente entrare il suo nerissimo Konni, pur di far saltare i nervi alla cancelliera Merkel terrorizzata per esser stata morsa da bambina. C’è insomma un Dudù in ogni Arcore che si rispetti, e anzi i tabloid inglesi hanno tuonato più volte contro l’affetto (pare) eccessivo che legava Queen Elizabeth ai suoi welsh corgi di sangue blu, una volta perfino ritratti in foto con tanto di corona in testa (pardon, sul muso). È l’inevitabile punto di arrivo di un percorso che ha visto uomini e cani condividere tutto: abbiamo visto cani divinizzati (Anubi o Cerbero), cani soldato (dagli alani dei conquistadores ai mastiff dei boeri), cani fuorilegge (le mute di pastori corsi ai comandi dei banditi del nostro Mezzogiorno) e ancora cani poliziotto, cani terapeuti, cani astronauti e ovviamente cani superstar come il Commissario Rex, Rin Tin Tin e Lassie. Completa il quadro la nutrita truppa di allegre bestiole che la cuccia ce l’hanno fra le pagine di un libro, e qui non si possono non ricordare il Buck de Il richiamo della foresta di Jack London, Zanna Gialla di Gipson e il Pallino pulcioso che Bulgakov convertiva chirurgicamente in cittadino sovietico nel suo caustico Cuore di cane. Il fatto è che oggi un nuovo ruolo si è aggiunto al già ricco mansionario di Fuffi e compagnia, ed è quello di sostanziale supplente affettivo. A settant’anni dal libro di Lorenz, il cane non è più un’appendice animale del nucleo familiare, bensì assume una posizione baricentrica. Per l’anziano rimasto solo, egli incarna l’abbraccio di chi non c’è più, mentre per le coppie senza figli celebra la dimensione tenera, giocosa, nonché quel legame di viscerale dipendenza così simile a quello fra bambino e genitori (il cane non è creatura autonoma, chiede di essere trasportato, curato, perfino nutrito). Niente di sorprendente, in fondo, vivendo noi nell’epoca dei surrogati, in cui la sfera relazionale si è dovuta riconfigurare per tenere il passo a una modernità anaffettiva. Chi come me possiede un cane, sa quanto sia comune sentirsi dire “questi animali sono migliori degli umani”, ed è evidente che dietro la frasetta covi qualcosa di profondo, che affonda le radici nel magma individualista e antisolidale in cui siamo da tempo sprofondati.
Ecco allora che anche il mio golden retriever (per la cronaca, si chiama Brownie) finisce per rappresentare ai miei occhi molto più che un animale da compagnia, quanto invece la sintesi vivente di certi valori positivi all’apparenza irreperibili nel congresso umano: la fedeltà, il disinteresse, la disposizione innata a cogliere il meglio di situazioni e persone. Il cane è insomma ciò che l’uomo non è più. Ma non solo. La verità, temo, è che a giocare a suo vantaggio sia quella psicologia elementare, anni luce distante dai continui autosabotaggi della nostra natura complessa, ahimè moltiplicata da un contesto ansiogeno che dovunque sente competizione.
Da tutto questo, mister Dog è immune, ed è quindi facile leggere in lui il paradigma di un essere risolto, pre-tecnologico, relitto di un Eden in cui bastava un osso per vibrare di pura felicità, senza doverlo per forza condividere su Instagram. Recita un’altra famosa frase fatta “ai cani manca solo la parola”, ma per assurdo è proprio questa la loro carta vincente in un mondo che ha demonizzato il logos, a forza di comunicare tutto a tutti in un’ossessiva vetrina di se stessi. Non hanno la parola, è vero. Beati loro.