la Repubblica, 2 novembre 2019
L’autobiografia incompiuta di Prince
L’avrebbe mai terminata la sua autobiografia? E, soprattutto, l’avrebbe mai data alle stampe, senza mille ripensamenti, correzioni, prefazioni e postfazioni, aggiustamenti e aggiunte dell’ultim’ora? Avrebbe onorato quel contratto con la Random House che con tipico distacco aveva fatto firmare da un fiduciario? Prince (Prince Rogers Nelson, 1958-2016) non era un artista dalle decisioni univoche; poteva completare un intero album e nasconderlo in fondo al cassetto; annunciare un tour e poi rivoluzionarne le date; consegnare i master per la stampa del disco e bloccarne l’uscita. Era un genio controcorrente che né sette Grammy né un Oscar (per Purple Rain ) né gli oltre 100 milioni di dischi venduti hanno piegato alle logiche del mercato.
La compilazione di The Beautiful Ones – L’autobiografia incompiuta, il libro curato dal trentatreenne Dan Piepenbring, che HarperCollins pubblica in Italia il 14 novembre (verrà ufficialmente presentato il 12 nel corso di un #Purpleparty all’Arizona 2000 di Milano), a metà tra scrapbook, biografia e autobiografia, non è stata facile neanche dopo la morte dell’artista per quell’overdose di Fentanyl – l’assenza di un testamento ha scatenato una tale ridda di pretendenti da disorientare anche i giudici. Morte misteriosa, come la sua vita, come la scelta bizzarra di quel Piepenbring, bianco e di ventisette anni più giovane, che lui chiamava «fratello Dan» e aveva preferito a più accreditati biografi. Forse era rimasto intrigato da quella breve relazione che il giovanotto era riuscito a fargli arrivare. «Quando ascolto Prince, ho la sensazione di violare la legge… La prima volta che mi trovai a guidare da solo a Baltimora, accesi la radio e sentii un uomo che cantava di voler essere una donna, rivelando una specie di primitivo desiderio psicosessuale senza filtri… e quell’esperienza scardinò la porta del mio cervello», recitava tra l’altro.
«Devi scrivere come se volessi vincere il premio Pulitzer», disse Prince consegnandogli, durante un tour in Australia, una ventina di pagine scritte a mano. Piepenbring le divorò: «Aveva scritto sulla propria infanzia e sulla propria adolescenza a Minneapolis. Sfogliai velocemente, trovando una messe di aneddoti giovanili, tutti sensoriali, quasi tattili. Rievocava il primo bacio mentre giocava a moglie e marito con una bambina del quartiere. Descriveva anche l’epilessia di cui aveva sofferto durante l’infanzia». Piepenbring non pensò di aver fatto gol, ma sicuramente si sentì a pochi passi dalla porta, anche se non aveva dimenticato gli strani incontri con cui Prince lo aveva messo alla prova: «Volevo chiederti una cosa: tu credi nella memoria cellulare? Mi è venuta in mente leggendo la Bibbia, la faccenda dei peccati del padre. Come sarebbe possibile senza la memoria cellulare?». La star puntava in alto: «Possiamo scrivere un libro che contribuisca a risolvere il problema del razzismo?», chiese a Dan. E aggiunse: «Miles Davis credeva esistessero solo due categorie di pensiero: la verità e le stronzate dei bianchi». Gli promise anche aneddoti esplosivi su Michael Jackson («Parlando di lui puoi usare la parola “magia”, ma non farlo MAI quando parli di me, con me solo FUNK», intimò al giovane autore) che avrebbe fatto leccare i baffi ai pubblicisti della casa editrice.
Purtroppo, l’ultima volta che “fratello Dan” sentì Prince fu domenica 17 aprile 2016, quattro giorni prima che morisse, dopo un concerto del “Piano & A Microphone Tour”, e in quei pochissimi mesi non aveva neanche scritto il primo capitolo, anzi non aveva scritto un bel niente. Ma l’Estate incaricata di far fronte alle beghe ereditarie e di aprire lo “scrigno” di Minneapolis che il genio di Purple Rain aveva gelosamente tenuto segretissimo, non sarebbe riuscita a far ordine tra le carte (delle musiche inedite stanno già facendo generosamente “scempio”; il 29 novembre uscirà una ristampa del leggendario 1999 con 35 tracce inedite) senza il contributo di fratello Dan. «C’erano meraviglie ad attenderci a ogni passo», racconta l’autore. «Appunti e testi erano scarabocchiati su buste, retro di scontrini, carta da lettere di alberghi di nazioni remote».
Così l’idea della biografia si è rimessa in moto; The Beautiful Ones non è certo il volume definitivo e omnicomprensivo vagheggiato da Prince (e nulla è svelato della vita segreta – eccessi compresi – che il divo conduceva all’interno del suo maniero e che noi morbosamente avremmo voluto conoscere), ma a parte le già strombazzate provocazioni contro la “corporate music” di Ed Sheeran e Katy Perry, contiene materiale fotografico mai visto prima e l’inizio di una storia (quella familiare) che fino ad allora l’artista aveva solo sublimato in canzoni (e nel film Purple Rain ). «Lo strepito di un litigio tra genitori è agghiacciante per un bambino. Se capita che si trasformi in uno scontro fisico, può diventare devastante», scrive. E ancora: «Quando ero ragazzo, nel Northside di Minneapolis c’era troppo testosterone per i miei gusti… Violente risse, gravidanze indesiderate, a volte persino sparatorie. Inoltre, la pubertà si abbatté su di me con la violenza di un uragano, & non facevo che pensare all’altro sesso». «I genitori vengono descritti in modo così approfondito perché sono il motivo per cui tre dottori diagnosticarono a Prince un “disturbo mentale” definendolo un giovane con “una personalità dissociata”», commenta l’autore. «Prince ha diciannove anni e ha passato metà della propria vita a suonare musica e l’altra metà a tentare di capire chi è veramente». Non sarà stato quel “disturbo mentale” ad aver partorito il genio?