Per quanti anni ha operato?
«Ho fatto il chirurgo toracico dal 1971, cioè dopo la laurea, al 2013. Inizialmente a Padova, dove ho realizzato a partire dal ’95 i primi quindici trapianti di polmone della nostra regione, e poi a Verona. Nel 2003 sono diventato vicario del Centro trapianti regionale e dal 2008 ho avuto l’incarico di coordinatore. Ho organizzato tutto il sistema di gestione delle donazioni degli organi, dei prelievi, e degli interventi chirurgici ».
Il medico pensa all’ipotesi di ammalarsi?
«No, io pensavo di essere sano come un pesce ed ero concentrato sulla cura degli altri. Facevo il chirurgo toracico e il 90% dei miei pazienti erano malati di cancro. Mi sono dedicato completamente a loro. Nel corso della carriera incontri situazioni personali drammatiche che in un certo senso ti distolgono da te stesso. E io sono sempre stato molto empatico. Oltre a operarli parlavo anche tanto con i malati. Mia moglie, che è una collega psichiatra, mi rinfaccia ancora oggi che in certi anni le vacanze saltavano all’ultimo minuto ed ero reperibile per settimane o mesi. Ma il chirurgo è fatto così, ha una carica di adrenalina che lo porta a sentire meno la fatica».
Quando si è reso conto di stare male?
«Ammetto di aver trascurato da giovane alcuni problemi al cuore, anche per i motivi che ho appena spiegato. Questo ha portato ad un aggravamento. Ho deciso di fare una procedura mini invasiva per un’insufficienza cardiaca nel giugno del 2013. In quell’occasione i colleghi hanno capito che la situazione era gravissima e che avevo bisogno di un trapianto urgente di cuore».
Come è stata l’attesa dell’organo?
«È durata dieci giorni, nell’ospedale di Padova. Li ho trascorsi sospeso tra stato di coscienza e incoscienza.
Quando ero presente a me stesso vedevo i volti dei colleghi e mi sentivo tranquillo e fiducioso. Aver guidato la macchina, sia dal punto chirurgico che organizzativo, mi rasserenava. Conoscevo le qualità di una struttura capace di affrontare e risolvere il mio problema».
Ha detto la sua ai colleghi sulle strade terapeutiche da prendere?
«Non ho mai interferito minimamente con le decisioni dei medici. È chiaro che l’ambiente dove ero ricoverato mi era noto, ci ho passato tanti anni, ma ho messo da parte il mio essere chirurgo e mi sono affidato ai medici e alla fortuna. Mi sono lasciato andare al trapianto, ho provato quello che devono aver provato tanti miei pazienti».
Ha mai pensato di conoscere la famiglia del donatore?
«No, sono sempre stato contrario a questa possibilità. Mi basta sapere che anche a me è successa una cosa che ho visto tante volte accadere ad altre persone. Un organo inerte, trasportato da un ospedale all’altro, torna alla vita come torna alla vita chi lo riceve. Il pomone, dentro il ghiaccio con cui viene trasportato, è pallido e immobile, ma quando si impianta torna a muoversi con il respiro e cambia colore, dal bianco al rosa».
La sua vita con un cuore nuovo è diversa?
«Il trapianto ha accentuato la mia positività e gioia di vivere. Apprezzo le cose, vedo più facilmente i lati positivi rispetto a quelli negativi».
Crede che sia una cosa comune ad altri trapiantati?
«Di certo gioca anche il mio carattere. Mi sono ripreso velocemente dall’intervento, due mesi dopo già facevo il bagno in mare. Poi ho costituito un’associazione di cardiotrapiantati e organizziamo iniziative per rendere autonomi i pazienti.
Promuoviamo stili di vita corretti, come l’attività fisica, per evitare che abbiano troppi contatti con le strutture sanitarie. Insomma, mi impegno a vivere per far battere più a lungo possibile il mio nuovo cuore e onorare così chi me l’ha donato.
Senza persone come quella i trapianti non si farebbero».