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 2019  novembre 02 Sabato calendario

Due indagini sui rapporti coi trafficanti libici

L’affare Bija approda sui tavoli della Procura di Roma. C’è il nome di Abdul Rhaman Milad, il trafficante di uomini che di giorno veste la divisa con i galloni della guardia costiera libica e che imbarazza più di un palazzo romano, sul fascicolo, al momento senza indagati, che i pm di Agrigento hanno trasmesso alla Procura retta da Michele Prestipino per valutare eventuali ipotesi di reato. Torturatore, trafficante ma anche «interlocutore istituzionale» in tavoli di trattative parallele agli accordi Italia-Libia, Bija è colonna portante – nella sua appena confermata veste di capo della guardia costiera di Zawiya – di quella zona Sar libica che, dagli atti di un’indagine della Procura di Agrigento ricca di contributi internazionali per nulla scontati (dall’Imo, l’istituto che certifica le zone Sar, all’Unhcr) emerge come di fatto gestita dalla Marina italiana.
Ma non solo. Nell’indagine siciliana sono venuti fuori forti dubbi su come siano effettivamente stati impiegati i 150 milioni di euro che il governo italiano ha fin qui stanziato per formare e supportare la Guardia costiera libica. Ai colleghi romani i pm di Agrigento suggeriscono di verificare dove siano effettivamente finiti quei soldi L’invio degli atti risale a qualche giorno fa quando agghiaccianti verbali di interrogatorio di cinque migranti arrivati a luglio a Lampedusa con la nave Alex di Mediterranea hanno acceso i riflettori sull’ufficiale della guardia costiera identificato nella stessa persona raffigurata nelle foto pubblicate da Avvenire, al tavolo di un incontro tra delegazioni libica e italiana prima al Cara di Mineo e poi nella sede della Guardia costiera di Roma. Verbali di interrogatorio che vanno a ricomporsi in un puzzle insieme a fonti aperte come le inchieste giornalistiche di Avvenire e dell’ Espresso e all’ultimo rapporto dell’Onu che include il nome di Abdul Rhaman Milad tra i criminali che controllano il traffico di uomini dalla Libia verso l’Europa, destinatario di un misterioso mandato di cattura della stessa magistratura libica che però nessuno si sogna di eseguire mentre Bija – raccontano al quartier generale della Guardia costiera di Tripoli – continua tranquillamente a svolgere il suo lavoro ufficiale.
E teatro del racconto dei cinque migranti è proprio il centro di detenzione di Zawiya, un’ex base militare vicina alla raffineria centro di enormi traffici di contrabbando, dove sono rinchiusi un migliaio di persone, donne e bambini compresi, il regno di Ossama Milad Rahuma, il cugino di Bija. Le sue vittime, che pronunciano a stento terrorizzate il nome davanti ai pm, lo storpiano in “Bengi”. Ma è lui: «È lui l’uomo che sulla spiaggia di Zawiya seleziona chiparte e chi no, che decide quante persone salgono su questo o quel gommone». Ed è sempre lui poi, sulle motovedette della Guardia costiera libica dono dell’Italia, che intercetta quegli stessi gommoni, per poi riportare i migranti di nuovo all’interno del lager, nuove violenze, nuove torture, nuovi ricatti, per ottenere da familiari e amici nuovi soldi per ripagare un nuovo viaggio. In quel centro, uno di quelli ufficiali gestito dalla polizia libica, ha accesso anche l’Oim, l’organizzazione internazionale delle migrazioni. E i testimoni hanno puntato l’indice contro un presunto funzionario dell’organizzazione, o almeno un uomo che ne indossava la casacca, che li avrebbe venduti ai trafficanti. Accuse che il portavoce Flavio Di Giacomo ha seccamente smentito. Ed è proprio l’Oim l’organizzatore degli incontri, prima in Sicilia e poi Roma, che porteranno in Italia proprio Bija come esponente della delegazione incaricata formalmente di studiare il modello di organizzazione italiano dei centri di accoglienza. Segno della poliedricità di rapporti di Bija.
«Questo lavoro investigativo è suscettibile di nuovi importanti sviluppi», annunciò a settembre il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Ma sono state le inchieste giornalistiche a tracciare la rotta obbligata di un’indagine che adesso porta a Roma dove – se ce ne sono – sarebbero stati stretti accordi che andrebbero ben oltre il Memorandum Italia-Libia. A cominciare dalla reale gestione della Sar libica in cui il ruolo della Marina italiana andrebbe ben oltre quello di supporto formativo e tecnologico. Con quella che è ormai molto di più che una raggelante ipotesi: a Roma e a Tripoli, alle chiamate di soccorso rispondono (o non rispondono) e danno indicazioni uomini della Marina italiana. I libici mettono solo la firma.