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 2019  novembre 02 Sabato calendario

I 90 anni di Ferruccio Soleri. Intervista

«Strehler me lo ripeteva a ogni compleanno: Ferruccio, com’è che tu invecchi e il tuo Arlecchino è sempre più giovane?». Alla vigilia dei 90 anni, Ferruccio Soleri ricorda la battuta del grande regista che ha fatto di lui l’Arlecchino sommo del teatro. E sul suo viso immobile, tutta la vita uso a celare le emozioni dietro la maschera, spunta l’ombra di un sorriso.
Il 6 novembre saranno 90 anni, quasi 60 passati con Arlecchino. E da due vi siete detti addio. Le manca? 
«No perché la fatica fisica era ormai troppa. Si perché se il mio corpo è ancora agile lo devo a lui. Per reggere tutte quelle capriole la disciplina è stata ferrea, dieta, ginnastica, scale di corsa... Una vita da atleta. Ma a un certo punto devi fermarti. Per te e per la memoria che il pubblico ha del tuo personaggio. Certo che mi manca, mi manca il contatto con la gente, gli applausi, le risate... Lui e io eravamo una coppia di ferro. Ho riposto il costume a toppe nell’armadio. Dove peraltro l’avevo trovato».
Com’è successo?
«Avevo 7 anni, ero andato con i miei in vacanza al Lido di Camaiore, ospiti di un celebre attore, Antonio Gandusio. Nella cameretta destinata a me c’era un armadio, dentro un vestito cucito con pezze di tanti colori. Degno di uno straccione o di un re. Lo guardai incantato. Mai avrei pensato che sarebbe stato la divisa della mia vita. Un segno del destino». 
Destino non comune, come si diventa Arlecchino?
«La mia passione era il circo, ma in famiglia non era un mestiere ben visto. Volevo fare anche il calciatore, ma mi ruppi una gamba. Mi sono iscritto a Fisica e Matematica, ma il teatro mi attirava di più. Traslocai a Roma, all’Accademia Silvio D’Amico. Dove il mio maestro, Orazio Costa, colpito dal mio talento acrobatico, mi disse: tu sei un Arlecchino». 
Sentenza impegnativa.
«Obiettai che ero di Firenze... A darmi lezione di veneto fu Gastone Moschin. Al saggio finale venne Marcello Moretti, Arlecchino leggendario, gli piacqui, ne parlò con Strehler. Che mi chiamò al Piccolo, volle vedermi all’opera e mi propose di andare in tournée a New York come rimpiazzo di Moretti». 
Così fu? 
«La sera del 28 febbraio 1960 toccò a me. A sipario ancora chiuso, io con il braccio alzato nel tipico gesto di Arlecchino, sento annunciare che avrei sostituito Moretti. E la platea esplose in un boato di proteste. Fischiato prima di cominciare. Mi sentii afflosciare. A raddrizzarmi arrivò la voce di Paolo Grassi che da dietro le quinte sibilò con la sua erre moscia: “Soleri, per Dio, su quel braccio!” Cominciai come in trance, poco per volta mi resi conto che stavano ridendo. Alla fine un altro boato, stavolta di applausi». 
E così è stato per tutte le altre recite, quasi 3.000, in tutti i Paesi del mondo. Come si spiega tanto successo?
«Come diceva Strehler, Arlecchino non è una marionetta, non è un buffone. È un povero Cristo che deve ingegnarsi per campare. Furbo ma mai cinico, servo ma non servile. Pieno di ironia ma anche di umanità e malinconia. Sempre affamato di vita... Il mondo è pieno di Arlecchini! Per questo piace ovunque, in Cina, in Giappone, per un po’ guardano le didascalie poi lasciano perdere perché il linguaggio del corpo racconta già tutto». 
Cosa vuol dire indossare la maschera?
«Rinunciare a essere narciso. La maschera nasconde, crea mistero. Solo alla fine te la puoi togliere, svelarti per un attimo. Con la maschera bisogna imparare a conviverci, a reggerla, a respirarci dentro. A esprimere gli stati d’animo usando il poco che non cela, la bocca, il mento. Una prigione foriera di libertà. Come diceva il mio amico Dario Fo, quando indossi la maschera non puoi mentire. Rinunci all’identità per dire la verità».
Che ricordo ha di Strehler?
«Un maestro duro, a volte terribile, ma sempre pieno di umanità e passione. Solo un genio come lui poteva pensare di aprire il Piccolo nella Milano del dopoguerra con L’albergo dei poveri di Gorkij e l’Arlecchino goldoniano. L’impegno sociale e la vitalità gioiosa per la rinascita».
Con Ronconi come è stato?
«Terribile. Lui era tutto il contrario di Strehler. Per fortuna c’era Sergio Escobar, per me come un fratello».
Un sogno ancora?
«Creare a Milano un Centro internazionale della Commedia dell’Arte. Un patrimonio dell’umanità che Strehler ha qui portato al suo massimo splendore».