Corriere della Sera, 2 novembre 2019
Cosa ho imparato leggendo Il colibrì
Gli scrittori sbagliano (quasi sempre) a sentirsi incompresi. E sbagliano (sempre) a non prendersela con se stessi, invece che con i lettori che non li leggono, gli editori e gli uffici stampa che non li valorizzano, i giornali, i social, le tv che non li tengono nella dovuta considerazione. Se c’è una cosa che avverti all’impronta è l’odore di buono che emana un buon libro. Può essere un profumo che non fa per te, ma se sei un tipo sincero e non coltivi pomposi pregiudizi estetici o ideologici, e soprattutto se disponi di olfatto adeguato, basta una sniffatina come si deve per dire a te stesso con sollievo: eccolo qui, l’odore di buono che cercavi.
Con Il colibrì di Sandro Veronesi è stata sufficiente questa frase alla settima riga: «Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante», per farmi capire che stavolta l’odore era inebriante.
Più tale fragranza mi eccita, più avverto un’irresistibile necessità di capire il perché, più sono portato a scriverne. Il guaio è che scrivere del libro di Veronesi significa tradire una consolidata pluriennale abitudine a non occuparmi pubblicamente dei romanzi scritti da un mio connazionale. Un’autolimitazione che non ha mai avuto niente a che fare con il pregiudizio nei confronti della letteratura italiana contemporanea, più in salute di quanto non dicano gli snob (e alla quale io stesso ogni tanto verso il mio inessenziale obolo). Bensì da una scelta igienica atta a scongiurare sul nascere promiscuità amicali, marchette editoriali, vendette private.
Sono felice di tradire i miei scrupoli deontologici con Il colibrì di Sandro (perdonatemi se d’ora in poi mi limiterò al nome di battesimo: non è per la distratta amicizia che ci lega, ma perché, parafrasando Holden, quando ti piace un libro hai voglia di dare del tu a chi l’ha scritto). Del resto – mi ripeto con autoindulgenza – questa non è una recensione: è un omaggio, un appunto, un’estatica divagazione che prende forma sullo schermo del computer e nel mio cuore quasi malgré moi. Il grande Edmund Wilson diffidava i critici dal fornire le proprie personali impressioni di lettura. Non vedo l’ora di non seguire i suoi consigli e di disattendere le sue sagge indicazioni.
Quando la scorsa estate ho letto le prime pagine del romanzo anticipate da «la Lettura» ho pensato ch’era davvero un attacco efficace ma anche che era un tipico attacco alla Sandro Veronesi. Subito, infatti, mi sono detto: vabbé dai, Sandro padroneggia come pochi l’arte di iniziare romanzi. Venite venite B-52, La forza del passato, Caos calmo, XY, Terre rare: non ce n’è uno che non ti faccia sentire un alienato per come t’incolla alla pagina. A guardarli bene, questi inizi, perseguono sempre un’affine strategia retorica. C’è un tizio (di solito un borghese di origini toscane, belloccio, ammodo, benestante, ingenuo, fragile, irreprensibile, professionalmente e sentimentalmente soddisfatto) che un giorno, nel mezzo della sua bella prospera vita, va a sbattere il muso su una verità che non solo manda in frantumi ogni cosa ma che lo induce a rivedere e rettificare il giudizio fin troppo benevolo che fin lì ha voluto dare di sé e dei suoi cari. Così avviene anche a Marco Carrera nel Colibrì. È lì nel suo studio di oculista alle prese con le solite occupazioni quando riceve la visita dello psicoterapeuta della moglie che lo mette di fronte a un’evidenza inaccettabile che spalancherà il vaso di Pandora su una miriade di altre evidenze altrettanto inaccettabili.
Il guaio di Sandro, mi son detto dopo aver letto le promettenti prime pagine, è che non sempre i suoi inizi tonitruanti mantengono le promesse. Sia XY che Terre rare — per stare a due libri che ho amato – si perdevano nell’intreccio. Un po’ come Marías, altro eminente scrittore contemporaneo, anche Sandro inizia i suoi romanzi alla garibaldina per poi smarrirsi strada facendo, talvolta per eccesso di generosità.
Ho preso una bella cantonata.
Il colibrì ha smontato il mio pregiudizio pagina dopo pagina, senza scampo. Non mi sono trovato, infatti, di fronte alla riedizione de La forza del passato, ma a qualcosa di più grande e impellente. Il mio professore del liceo lo avrebbe chiamato «crescendo» wagneriano. Il colibrì è il romanzo più ispirato scritto da uno dei nostri più ispirati scrittori. C’è tutto Sandro, il suo genio cristallino, i colpi di tacco e le proverbiali fissazioni: dialoghi funambolici, tassonomie, liste della spesa, citazioni occulte e manifeste, il sacro fuoco progressista e il disprezzo per la parte oscura acquattata in ciascuno di noi: invidia, risentimento, avidità.
Per citare un libro di un autore che piace più a Sandro che a me, Il colibrì è pieno di vita e pieno di morte. E il paradosso è servito: la vita e la morte nel magico mondo della narrativa stanno talmente bene assieme da non poter fare a meno l’una dell’altra. Ribaltando un celebre cliché, vien da pensare che nei romanzi finché c’è morte c’è speranza. E il numero di cadaveri nel Colibrì è talmente elevato che neanche al camposanto. Le morti violente e premature sono persino più numerose di quelle naturali. E allora perché mentre leggi vieni letteralmente inondato da gelide secchiate di vita? La spiegazione è semplice. Il protagonista occulto di tutti i romanzi riusciti è il Tempo, ovvero quella strana ineffabile entità che distribuisce la vita e la morte come più le aggrada. Sandro, a sessant’anni suonati, avendo imparato sulla pelle che il Tempo è anzitutto una prigione, un carcere di massima sicurezza, ha agito di conseguenza. Come? Così: apprestando un montaggio apparentemente causale, in realtà genialmente meditato, affibbiando a ogni singola scena una precisa etichetta temporale, ha saputo conferire alla vicenda di Marco Carrera l’implacabile solennità di un annuario. Il colibrì è un album di famiglia. Un patchwork composto da memorabili tranche de vie che ricucite retrospettivamente dal lettore restituiscono il dramma e le gioie di una vita che se n’è andata via davvero troppo in fretta. Per questo su ogni pagina soffia il vento della nostalgia e del rimorso. Perché le cose vanno sempre nel modo in cui eri certo non sarebbero andate. Questo impianto consente a Sandro di eliminare l’inessenziale. Per dirla ancora con il linguaggio operistico, nel Colibrì non c’è un solo recitativo. È un susseguirsi di arie sempre più elettrizzanti. La vividezza di ogni quadro induce quasi al pianto. Non sempre la cosiddetta narrativa seria ti inchioda alla sedia. Il colibrì è capace anche di questo. Da prestigiatore di lungo corso, Sandro dà fondo a tutte le astuzie, i trucchetti, le scorciatoie, le ellissi di cui è capace. Non si fa nessuno scrupolo a riempire il romanzo di coincidenze implausibili e strazianti colpi di scena. Da scaltro sceneggiatore sa come prepararli, come anticiparli, ma non commette mai l’errore di spiattellarli troppo in fretta. Ti cuoce a fuoco lento e a puntino. Il capitolo Solo che (pp. 131-144) in cui viene illustrato il dramma di un uomo che scopre che il suo matrimonio è stata una spettacolosa menzogna e il capitolo Shakul & Co. (pp. 213-219) in cui si dà conto della tragedia delle tragedie sono performance da antologia, virtuosismi straordinariamente funzionali, spot all’arte del romanzo, in bilico tra poesia e melodramma com’è giusto che sia. Se è vero che i grandi romanzi sono quelli che sembrano essersi scritti da sé, allora Il colibrì è un grande romanzo.
Di cosa parla Il colibrì? Leggetelo e lo saprete. Quello che posso dirvi è che Sandro ha trovato un modo di riscrivere la storia delle storie: quella di Giobbe. Ma lo ha fatto alla sua maniera, naturalmente. Marco Carrera, il colibrì del titolo, il Giobbe di Sandro Veronesi, ha poco in comune con l’originale biblico, e ancor meno con i suoi fratelli maggiori creati da Balzac, Malamud o Arthur Miller. Il Giobbe di Sandro non è un reietto, ha avuto tutto dalla vita: bello, ricco, buono, è vissuto nello scorcio di secolo più prospero e pacifico della storia umana in una zona della terra tra le più belle, agiate e temperate. Essendo ateo non è la sua fede in Dio a essere messa continuamente alla prova. Bensì quella nei confronti degli uomini. Ma, come vedrete, le riserve di umanesimo di questo Giobbe contemporaneo sono pressoché infinite.
Diciamo che, almeno in questo, il romanzo scritto da Sandro contrasta con qualsiasi mia radicata convinzione estetica. Non credevo fosse così facile creare un eroe generoso, altruista e in buonafede in cui un lettore come me potesse (o almeno, volesse) identificarsi.
La vera arte è filosofica, pensava Baudelaire. È un’idea che ho sempre avversato, un’idea contro cui lotto da tutta la vita enumerando dentro di me le opere d’arte prive di ambizioni speculative. Il colibrì di Sandro Veronesi non si vergogna di essere un libro a tesi, un conte philosophique. È una di quelle meditazioni sul senso di una cosa che, per dirla con Vasco, senso non ha. Questa strana assurda irresistibile faticosissima cosa che ci portiamo dentro da che abbiamo memoria: la vita vissuta, la vita dietro le spalle.
Alla fine del romanzo Sandro celebra la gloria del Dna, il patrimonio più prezioso e ingombrante di cui ciascuno di noi dispone, a confronto del quale sbiadisce qualsiasi altro bene materiale. Il suo ideale, la sua utopia è un mondo gloriosamente multietnico. Temo che sarà deluso.
Quando poco più che adolescente decidi che ti guadagnerai il pane scrivendo romanzi, per prima cosa ti guardi intorno e vedi solo nemici potenziali, soprattutto tra gli amici. Poi un certo giorno ti svegli sperando che i suddetti amici, nel frattempo invecchiati accanto a te, scrivano libri bellissimi. È un conforto sapere che qualcuno lo sappia ancora fare.
Il colibrì entra nella mia vita mentre sono alle prese (da anni oramai) con un lungo romanzone che mi sta dando filo da torcere. Studiare il modo in cui Sandro ha saputo affrontare e risolvere i problemi compositivi posti da un libro così facile da leggere e così difficile da scrivere, può essere per me (e per chiunque si trovi nelle mie condizioni nervose) una fonte di ispirazione, se non proprio di salvezza.