ItaliaOggi, 1 novembre 2019
Trenta anni fa la caduta del Muro
«Quel giorno c’era tutta la città nelle piazze e nelle strade. L’emozione era forte nella luce già scarsa del primo pomeriggio. Rimasi colpito dai volti, bagnati dalla pioggia, della gente che guardava verso il muro come in attesa di un’apparizione laddove qualcosa per lunghi anni li aveva divisi. Spesso non ci si rende conto di stare vivendo un momento storico ma quel giorno sentii, insieme al frastuono della moltitudine che varcava il muro, che stavo vivendo nella storia»: Massimo Golfieri, romagnolo, fotografo, oggi ha 66 anni. È stato uno dei pochi italiani a vivere in prima fila quella giornata, il 9 novembre 1989, che spazzò via la guerra fredda, cancellò il comunismo e cambiò il mondo. Era andato a Berlino per realizzare un servizio fotografico di tutt’altro genere, si ritrovò («con la mia vecchia Nikon manuale») davanti all’Antifaschistischer Schutwall, cioè la Barriera di protezione antifascista, così veniva chiamato quel muro dalle autorità orientali. Aveva diviso in due Berlino e l’Europa per 28 anni, dal 23 agosto 1961al 9 novembre 1989, quando, alle 21,20 si alzò la barriera al varco di Bornholmer Strasse e in poco tempo una folla immensa si riversò in questa zona.Qualche ora prima Guenther Schabowski, capo del partito comunista a Berlino, aveva annunciato la cancellazione di ogni restrizione nei movimenti ovvero che tutti potevano circolare liberamente tra le parti Est e Ovest della città. Fu il primo atto della caduta del muro. «Si respirava un’atmosfera di speranza e fermento», dice Golfieri, «ma anche di inquietudine per un futuro incerto. Tra le altre scattai la foto di un bimbo sulle spalle di un genitore che si vede appena e sullo sfondo la porta di Brandeburgo: il crollo di un regime che il genitore aveva angosciosamente vissuto e il messaggio di speranza che intendeva trasmettere al figlio».
Quelle fotografie hanno fatto il giro del mondo, ora celebrano il trentennale della caduta del muro, e del comunismo, in una mostra a Bologna (nelle sale di Cenacchi Arte Contemporanea), in ideale gemellaggio con la capitale tedesca che in questi giorni è una mostra a cielo aperto, con installazioni artistiche ed eventi (sono stati stanziati 10 milioni di euro) in più punti della città. Aggiunge Golfieri: «Attraverso questi volti immersi in quella straordinaria folla possiamo ritrovare oggi l’origine di quella luce che sta colorando, a trent’anni di distanza e non senza contraddizioni, una delle città più creative dell’Europa unita».
L’8 novembre a Mondolibro, la libreria italiana di Berlino, Piero Graglia (insegna alla facoltà di Scienze politiche della Statale di Milano) presenterà il suo libro Il Muro: «Il muro, cioè ogni muro può essere interpretato – dice – non tanto come una dichiarazione di forza, di potenza o di «sovranità», bensì come un elemento che esprime una debolezza, un’incapacità di mediare e di risolvere le problematicità delle relazioni che le due parti intrattengono, non senza conflittualità, questo è ovvio, da prima della sua costruzione».
Un altro italiano che visse quel giorno è Mauro Grassi, a Berlino perché all’epoca faceva l’interprete: «C’era tanta euforia – racconta – ma nei giorni successivi si cominciò a riflettere sui possibili esiti della nuova situazione di stallo politico ed economico che si stava producendo. Sì, perché insieme allo sfaldamento della Ddr, la Repubblica democratica, vi è stata la rapida e sistematica occupazione economica e politica da parte della Germania occidentale. Non parlerei di conciliazione, bensì di progressiva assimilazione della Ddr da parte della Repubblica federale tedesca, con tutte le implicazioni ad essa connesse».
Prima di cadere, il muro ha fatto almeno 138 morti, la maggior parte dei quali uccisi dalle guardie di confine, l’ultimo è stato un ragazzo di vent’anni, Chris Litfin, crivellato di colpi a Neukoelin mentre tentava di superarlo, impresa assai ardua: era lungo 155 chilometri, di cui 43 nella città di Berlino.
Secondo Rocco Buttiglione, ex politico, docente di filosofia alla Pontificia università lateranense di Roma e amico di Karol Wojtyla, il Pontefice ebbe un ruolo di assoluto rilievo in quegli eventi: «Quando, nel dicembre 1981, ci fu in Polonia il colpo di stato di Wojciech Jaruzelsky», dice, «i duri del partito esigevano un bagno di sangue contro Solidarnosc mentre dall’altro lato ci si preparava all’insurrezione. Fu Giovanni Paolo II a chiedere a Solidarnosc di rimanere fedele al metodo della non violenza e del dialogo e ad ottenere da Jaruzelsky garanzie per la vita dei prigionieri politici. Più tardi, quando il Muro è crollato, è stato ancora Giovanni Paolo II ad orientare le energie dei popoli verso il perdono, la riconciliazione, la ricostruzione materiale e morale. Fu questa la base culturale e spirituale su cui Helmut Kohl costruì il progetto di una nuova Europa».
A Berlino questo trentennale è celebrato festosamente ma un approfondimento di quanto è successo lo propone lo storico e politologo Gian Enrico Rusconi: «Dopo la caduta del Muro e la riunificazione i tedeschi intrapresero una doppia integrazione. Integrazione interna, con il sostanziale recupero e rilancio economico delle regioni ex Ddr, e integrazione europea, culminata nei trattati che si sono succeduti e perfezionati dopo Maastricht. La prima è riuscita, la seconda no. O quanto meno è riuscita solo in parte, creando nuovi problemi. Nel nuovo contesto europeo, infatti, la Germania è diventata protagonista, sollevando sentimenti controversi e ambivalenti».
A ricordo del muro rimangono oggi alcuni resti e il Checkpoint-Charlie, il passaggio con il settore statunitense dove tra l’altro, nel 1961, andò in scena un duro confronto tra carri armati americani e sovietici schierati gli uni di fronte agli altri. Lo scontro fu evitato ma la celebrazione del 9 novembre dovrebbe rammentare i pericoli che si corrono quando le contrapposizioni e le prove di forza prevalgono sulla trattativa e sul dialogo.