La Stampa, 1 novembre 2019
Come suona l’intelligenza artificiale
Dal rumore puro del primo disco, Movement, alle canzoni di Proto, Holly Herndon è una delle presenze più stimolanti di questa edizione di Club To Club. Nata in una cittadina del Tennessee nel 1980, ha vissuto a lungo a Berlino e si è laureata a San Francisco in Musica Elettronica e strumenti di registrazione. È cresciuta circondata dal country, poi dalla techno, infine dalla sperimentazione più estrema: «La mia è musica del presente, solo che tanta musica guarda indietro, e quando fai qualcosa che rispecchia l’oggi, sembra che sia il futuro».
Proto, presentato ieri in una serata in collaborazione con Red Bull, è stato composto con l’aiuto di un’intelligenza artificiale. Da musicista, questo non significa delegare parte del lavoro a una macchina?
«Non volevo che un’intelligenza artificiale scrivesse la musica per me. Molte delle ricerche nel settore sono analisi statistiche tra le note di una partitura, se usi Bach per istruire il sistema puoi avere inediti nello stile di Bach. Per me è sciocco perché la musica nasce in un tempo e un luogo specifici e quindi non ha senso immaginarla fuori dal suo contesto. Allo stesso modo per Spawn, la nostra AI, non abbiamo usato come riferimento i miei lavori passati. Con il mio partner Mathew Dryhurst e la programmatrice Jules LaPlace, ci siamo concentrati sul suono e sulle sue qualità, volevamo un risultato a bassa fedeltà ma alta tecnologia».
Un’intelligenza artificiale dal volto umano?
«L’IA è molto potente, ma è anche molto stupida, quindi volevamo mostrare il suo lato imperfetto. Nasce dall’intelligenza e dal lavoro dell’uomo, non dimentichiamolo».
Uomo e macchina, succedeva già in Mensch-Maschine dei Kraftwerk, anno 1978. Com’è cambiato questo rapporto nel tempo?
«Penso che sia un processo continuo di familiarizzazione, oggi i ragazzi che fanno musica sono cresciuti con macchine che quarant’anni fa erano tecnologie aliene. E per loro è naturale usare il digitale. Ma è così da sempre, anche il canto è una forma tecnologia, una delle prime che l’uomo abbia mai usato».
Nel testo di Extreme Love si dice che "non siamo una serie di individui, ma un macroorganismo". È solo musica o anche politica?
«Nel tour di Platform, il mio secondo disco, ho cominciato a chiedermi qual è il ruolo dell’essere umano in uno spettacolo ipertecnologico. Penso che sia una domanda politica: che posto occupiamo in questo ambiente altamente mediato che stiamo creando per noi stessi? Se la tecnologia riesce a liberarci da un compito faticoso, come suonare fisicamente ogni nota, ci permette di essere più umani ed euforici insieme sul palco: anziché sostituirci, ci permette di essere più intensamente noi stessi».
Proto, uscito lo scorso maggio, è il suo disco più vicino al pop, se non nei suoni nella struttura dei brani. Ma cos’è il pop?
«Già, chi lo decide? Ci sono stati successi da top ten che hanno portato al grande pubblico suoni veramente selvaggi. Però io credo che la differenza stia nell’atteggiamento. Quando ero più giovane non ero interessata a comunicare con il pubblico come ora. Sto cercando di creare punti d’ingresso perché le persone entrino nel mio mondo musicale, anche se so che a volte è duro e spiazzante».
E nei concerti?
«Sul palco siamo in cinque, non è tutto elettronico, anzi c’è anche il canto acustico, e il pubblico è chiamato a partecipare e divertirsi».