Corriere della Sera, 31 ottobre 2019
Gli ebola bond
Rallenta l’epidemia di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, che in 15 mesi ha già causato 2.171 vittime. Tirano un sospiro di sollievo i cittadini congolesi, i medici e i volontari impegnati sul campo di questa ennesima emergenza pandemica. Ci credereste? Sono sollevati anche i fondi d’investimento, che hanno scommesso sulla capacità dell’Oms e delle autorità africane di bloccare l’espansione del virus. Avete capito bene. Esiste uno strumento finanziario, il Pandemic Emergency Financing Facility (Pef), creato dalla Banca Mondiale nel 2016 per mobilitare in anticipo risorse private, colmando il gap temporale che in genere esiste tra l’esplosione di una pandemia e la disponibilità delle donazioni dei Paesi ricchi per fronteggiarla. Funziona così: un investitore privato compra dei bond triennali (scadenza 2020) del Pef. Se i fondi vengono impiegati in un’epidemia, l’investimento è perduto. Ma se nulla accade il titolare dell’Ebola-bond si vede restituito l’investimento con rendimenti del 10% e più. Gli interessi sono pagati da Germania e Giappone. Detto altrimenti, gli investitori scommettono sulla probabilità della morte di migliaia di persone.
Il vero scandalo però è che, nell’attuale pandemia in Congo, il Pef finora non ha sborsato un dollaro: ci sono infatti criteri severi per azionarlo, per esempio che prima si diffonda in almeno due Paesi vicini e che lì muoiano almeno 20 persone. Finora c’è stata solo una vittima in Uganda. Per la cronaca, dal 2017 il Pef ha distribuito 114 milioni di dollari in tagliandi ai privati e zero in aiuti contro le pandemie. Non c’è bisogno di urlare contro un capitalismo ormai privo di ogni remora. Basta leggersi il rapporto della London School of Economics: «Il Pef serve gli interessi privati più che contribuire alla lotta contro le pandemie». Non c’è nulla da aggiungere.