Corriere della Sera, 31 ottobre 2019
Tutte le maschere che sfidano il mondo
«La nostra rivoluzione non aveva testa, ma corpo e anima sì»: la psichiatra Sally Moore descrive così la Primavera araba del 2011 in Egitto. Le rivolte spuntate di recente in giro per il mondo hanno qualcosa in comune con le sorelle di otto anni più grandi: da Hong Kong al Sudan, dal Libano al Cile, appaiono come ribellioni senza leader. Senza una testa, ma spesso con la maschera.
Anche se a Hong Kong il potere ha proibito manifestazioni a volto coperto, la «moda» è rimbalzata altrove: Beirut, Santiago, Bagdad, Barcellona. Strategie condivise: in Catalogna per esempio hanno copiato da Hong Kong non solo le maschere ma anche il blocco dell’aeroporto. Lo stile esprime una vena social «orizzontale». Con risvolti pratici: ci si nasconde il volto per non essere schedati e arrestati. Così come la mancanza (se non altro apparente) di una struttura definita rende più difficile per le autorità smantellare la catena di comando. Ogni movimento ha bisogno di simboli (i gilet gialli in Francia). Le maschere non attirano le critiche di protagonismo riservate ai simboli in carne ed ossa (lo sa bene Greta Thunberg). La spersonalizzazione porta alla rivolta «liquida». I giovani di Hong Kong hanno sposato la massima del conterraneo Bruce Lee: «Siate come l’acqua». Certo, poi ci sono anche le arti marziali, che sul fronte opposto possono diventare repressione guerresca. È stato così in Sudan, con i militari che hanno cercato di silenziare a forza di massacri la rivolta senza leader guidata dagli ordini professionali (dai medici agli insegnanti) che aveva scalzato il dittatore al-Bashir chiedendo democrazia. Il pugno di ferro non ha avuto successo: perché i manifestanti non hanno ceduto, e perché il compromesso raggiunto tra militari e civili non allarma i Paesi protettori del regime di Khartoum (monarchie del Golfo comprese).
La maschera della repressione varia il suo ghigno da luogo a luogo. A Bagdad le forze di sicurezza hanno ucciso centinaia di manifestanti a piazza Tahrir. In un’altra piazza che porta lo stesso nome e inneggia alla Liberazione, quella del Cairo, sappiamo com’è finita la veloce Primavera egiziana: la rivolta «senza testa» ha lasciato spazio a movimenti più strutturati come i Fratelli Musulmani, favorendo poi il golpe militare dell’attuale presidente al-Sisi. Sul quotidiano francese Libération ha scritto Gilbert Achcar, docente di relazioni internazionali a Londra, che la «lezione liquida» di Bruce Lee e la mancanza di strutture rappresentative «può essere un vantaggio all’inizio di una rivolta, ma diventa una debolezza a lungo termine». Con o senza maschera, meglio che ci sia una testa attaccata al corpo.