ItaliaOggi, 31 ottobre 2019
La terribile storia di mancata integrazione di un’egiziana di 16 anni sequestrata dal padre
Di solito in casi come questo ci s’inventa un nome. Il fatidico nome di fantasia, per proteggere la vittima, troppo giovane ancora. Che nome potremmo trovare allora per questa ragazzina? Aisha, Naima? Maria? No, nessun nome di plastica, la chiameremo col suo non nome. L’Innominata. E lei ha 16 anni, viene dall’Egitto, è in Italia da tre, frequenta una scuola professionale dell’hinterland milanese. Fa un po’ fatica, solo un po’, coi compagni ma solo perché, riservata com’è, non può calarsi nella spregiudicata gioventù di quei coetanei che, comunque, le vogliono bene, che non le fanno pesare il velo, come è giusto che sia.Lei vuole starci qui, vorrebbe diventare interprete, ma la scuola è un conto alla rovescia: lo ha detto il padre, poche parole dure, definitive: «Dal 20 novembre me la riporto in Egitto, poi torneremo qui, ma a scuola mai più. Ho deciso così, non voglio più discutere, non voglio più ascoltarvi». Nello sconcerto di tutti, insegnanti, compagni, dirigenti scolastici, che non sanno cosa fare, se opporsi, reagire, se provare a ragionare con un padre irragionevole o rassegnarsi a un’altra sconfitta. In passato, casi del genere finirono meglio, col ripensamento della famiglia, ma questa volta, questa volta, davvero sembra tutto inutile. Innominata torna in Egitto e a fare che? Forse come promessa acerba per qualcuno? E, quando ancora rientrerà in Italia, sarà la stessa ragazza, timida sotto il velo, che sognava un futuro da interprete?
Secondo la scuola, non ci sono appigli: Innominata compie 16 anni e decade l’obbligo di frequenza. In più, la dannata complicazione etnica, religiosa, mettersi contro una famiglia intera, inasprire i rapporti, va a finire che a pagare è proprio lei. Solo lei. Che non parla. Che accetta e che subisce e vede il suo sogno dissolversi nel mai per una realtà forse così scura, così impenetrabile. Così irrimediabile. «È giusto, tutto questo?» chiede un’insegnante accorata, quella che forse più di tutti ha preso a cuore il futuro della studentessa gentile e appartata. E lo sa che è una domanda retorica, inutile domanda senza risposta. «Già è difficile così, si parla tanto di integrazione, che bella prospettiva, che parola dolce, come suona bene, ma poi realizzarla è tanto, tanto complicato e tutto ricade sulle nostre spalle».
Come dappertutto, ci sono i lavativi e i generosi anche in quell’incasinato pianeta che si chiama scuola e i volonterosi fanno quel che possono e anche di più, con il loro amore di insegnanti, coi loro limiti, ma se solo si sapesse quanto è ingrato armonizzare in una stessa classe orientali, mediorientali, balcanici, italiani: tendono a fare gruppo etnico, stanno tra loro, mescolarli è un’impresa. Li pungoli, e quelli tornano indietro. «Voi non avete curiosità per la vita», li ha sgridati un giorno la prof. Scoccano, naturalmente, scintille sentimentali, brevi storielle figlie di un’età, ma non capita quasi mai, per essere ottimisti, tra ragazzi di provenienza, di mentalità, di credo religioso diverso.
Così tutto si risolve ad una integrazione a scadenza, di gomma, con amore e con paura perché un professore è sempre causa ed effetto e, se le cose vanno male, sarà lui a pagare. Con la rabbia di padri e madri, con la sconfitta di un figlio. Con troppe notti insonni e un senso di fallimento che non merita, perché una cosa così enorme, così complessa non dipende da una prof. Non solo, almeno. Non basta pronunciare parole magiche, pontificare teorie, la realtà, poi, sfugge, s’aggroviglia in gomitoli di complicazioni non previste, eppure prevedibilissime perché gli umani sono così, è il terribile bello della vita. E poi l’altro guaio, quello dei buchi della legge: nessuno ha pensato a questa continue defezioni imposte, nessuno ha sospettato che lasciare l’obbligo scolastico a 16 anni avrebbe sortito il risultato di un aborto didattico ripetuto centinaia, migliaia di volte. Ma che fai, se la legge è dalla parte di chi cerca asilo ma non è disposto ad accettarne le condizioni, detta quelle sue, porta via una figlia delicata come un fiore velato e forse la riporterà qui diversa, irrimediabilmente donna, evirata dei suoi sogni adolescenti?
Innominata non ha voce, ha solo quella di un padre che ha già deciso per lei e cos’abbia in mente non lo dice. Nessuno può saperlo. «Ma davvero dobbiamo accettare tutto questo?». E non c’è risposta, perché non c’è soluzione. La prof scoppia in un pianto bambino e non capisco se sono lacrime di dolore o di rabbia: ma chi lo ha detto che non possono mischiarsi? L’integrazione che non c’è colpisce proprio quelli che più vorrebbero integrarsi. Innominata voleva diventare interprete, parlare ai suoi due popoli, metterli in contatto, avvicinarli sempre; il 20 novembre va via, e al suo banco siederà il silenzio di un’assenza. Una sconfitta che si potrebbe, si dovrebbe scongiurare. Quante sono le Innominate che non sospettiamo?