ItaliaOggi, 31 ottobre 2019
I piatti della Germania dell’Est
Günter Grass, non ancora Nobel per la letteratura, era contrario alla riunificazione, e scrisse il suo peggior romanzo, Ein weites Feld, letteralmente «Un vasto campo», tradotto giustamente da Einaudi con «È una lunga storia». Le prime cinquanta pagine raccontano la peregrinazione a piedi del protagonista da una Berlino all’altra, appena caduto il muro, per andare a mangiare un hamburger da McDonald’s. Come dire, valeva la pena tutto questo sconquasso storico per una polpetta? Senza aggiungere, che gli americani hanno copiato i tedeschi. A Amburgo le hanno sempre chiamate frikadellen o buletten, nella Ddr le ribattezzarono «Grilletta». Forse più gustose di quelle yankee.In tempo di rievocazioni, riemerge la nostalgia. Come si mangiava nella Germania comunista? «In realtà una tipica cucina dell’Est non è mai esistita», ha ammesso Stefan Wolle, direttore del Ddr Museum a Berlino. I critici del regime scrivevano che i tedeschi orientali morivano di fame giudicando dalle lunghe file davanti ai ristoranti. Naturalmente, non era vero. Non sapevano che farsene dei soldi, libri e dischi costavano pochi Ostmark, così i teatri e l’opera. Per un’auto dovevano attendere 15 anni, le vacanze erano quasi a carico dello Stato. Non restava che andare a cena fuori, anche se il menù non era allettante.
A Berlino esisteva un ristorante italiano, il Fioretto, ma non io riuscii mai a andarci. La signora preparava le nostre specialità, che non aveva mai gustato, copiandole da un libro di cucina, e sostituiva gli ingredienti con quel che trovava, con amore e fantasia, tanto per citare De Sica. «Cucinare al tempo del muro significava saper improvvisare», ha scritto la Frankfurter Allgemeine. E la bibbia di tutte le casalinghe all’Est era il manuale Wir kochen gut, noi cuciniamo bene come vuole il partito.
Al ristorante dell’hotel Elephant a Weimar, dove Thomas Mann fa alloggiare la sua Lotte, trovai sul menù un «risotto con risi bisi und ananas». Il mio dovere professionale non giunse al punto di ordinarlo. I würstel della Turingia, allora all’Est, sarebbero i migliori della Germania. Ma venivano esportati, sempre in cambio di Deutsche Mark. Al ristorante era d’obbligo la solianka, zuppa degli occupanti sovietici, e il Broiler, come chiamavano il pollo arrosto. Una lontana imitazione della pizza capitalista era chiamata Krusta, non so perché, con farina d’orzo. La Coca Cola, veleno capitalista, era sospetto anche nominarla. I ragazzi si accontentavano dell’imitazione, la «Vita Cola» o la «Sport Cola». L’hot dog veniva chiamato Ketwurst, la solita salsiccia con salsa di pomodoro nel pane gommoso e freddo. Il vino rosso era ungherese, Stierblut, sangue di toro, più pesante e aspro dei vini siciliani di un lontano passato. Il Rotkäppchen era uno spumante rosso e dolciastro, come il bianco tokai sempre magiaro. Ma io pasteggiavo con acqua minerale, dal retrogusto salino: per guidare non si doveva aver bevuto neanche un dito di vino.
Nel mio albergo, il Palast, distrutto dopo la riunificazione, dove alloggiavano tutti i giornalisti, funzionava bene o male il telefono, e si poteva scegliere fra tre ristoranti, perfino uno cinese. Nel menù erano presenti tutte le specialità del Brandeburgo, compreso il cervo e il cinghiale, o il luccio e il salmone. Ma era vietato ai berlinesi dell’Est. Se ne incontravi uno era un informatore della Stasi. Oggi, esistono almeno una dozzina di ristoranti e osterie specializzate in Ostalgie, la nostalgia dell’Est scomparso, da Deponie Nummer 3 a Zur Firma, dove sostengono che un tempo andassero gli agenti della Stasi. C’è perfino un chiosco di würstel, l’Alain Snack, dove vi servono la «Grilletta» e il Ketwurst. La nostalgia costa poco.