La Stampa, 31 ottobre 2019
Il lavoro di cesello per scrivere la Costituzione
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…» recita l’articolo 11 della Costituzione. «Ripudia»: che verbo controverso! Prima della stesura finale si attivò un’intensa discussione nella commissione dei 75 incaricata di redigere il testo costituzionale: non sarebbe stato meglio, dal momento che era appena terminato il conflitto mondiale, denunciare gli effetti nefasti della guerra usando «rinunzia» oppure «condanna»? Quest’ultima parola deve essere bocciata, spiegò l’autorevole Meuccio Ruini, presidente della commissione, poiché «ha un valore etico e non politico-giuridico» mentre «rinunzia» presuppone «che si faccia a meno di un diritto, quello alla guerra (cosa che vogliamo appunto contestare)».
Un acceso confronto-scontro tra i membri dell’Assemblea Costituente, le cui sedute si tennero dal 25 giugno 1946 e al 31 gennaio 1948, si sviluppò anche a proposito dell’articolo 31 in cui si sostiene che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». Si arrivò a designare il contrastato «riconosce» dopo uno slalom tra «assicura» e «garantisce» e aver sentenziato pollice verso per entrambi. Infiniti ostacoli sollevò l’innocente «tutti» dell’articolo 34: «La scuola è aperta a tutti». La variazione scartata, ma precedentemente sostenuta dai costituenti più radicali, era «aperta al popolo» e fu eliminata in quanto considerata troppo «classista». Parola per parola, compresi i punti, le virgole e le maiuscole, il cui eccesso era disprezzato da Luigi Einaudi come un retaggio del passato regime, i costituenti si applicarono con la lente di ingrandimento sulla lingua.
A svelarci tutti i retroscena linguistici che impegnarono i politici italiani è il libro di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, La nostra lingua italiana (Sperling&Kupfer, pp.190, €17). La ricerca, che parte dal latino delle origini e arriva fino ai nostri giorni, si focalizza in particolar modo sugli anni alla fine della seconda guerra mondiale quando la stesura della Costituzione e l’individuazione del suo linguaggio segnarono una profonda cesura rispetto al passato. I politici che si erano conquistati la democrazia avevano un obiettivo: volevano che la loro opera fosse accessibile e compresa dalla maggioranza degli abitanti dello Stivale. Reputavano necessario aiutare gli italiani a superare le difficoltà di comprensione e si rimboccarono le maniche per passare al vaglio verbi, aggettivi e sostantivi.
Secondo il censimento del 1951, il fascismo aveva lasciato in eredità alla nascente democrazia il 59,2 per cento di ultraquattordicenni senza nessun titolo, nemmeno la licenza elementare. Moltissimi si dichiaravano analfabeti. Il testo della Costituzione è formato da 9.369 parole che rappresentano forme ripetute, declinate o coniugate di 1.357 vocaboli. Però soltanto 355 lemmi del testo costituzionale su 1.357 sono termini difficili ed estranei al vocabolario all’epoca più usato. Dunque quel corpus così faticosamente elaborato era assai fruibile. Furono messi da parte i tecnicismi giuridici e amministrativi, le frasi tortuose e criptiche. Fu bandito, per esempio, il presente indicativo «debbono» che fu rimpiazzato dal più comune «devono»; venne introdotto il passato prossimo in luogo del passato remoto; venne eliminato il burocratese.
Il dettato costituzionale si dimostrò capace di raggiungere, sia pure con una lettura assistita e spiegata, il 90 per cento degli italiani con la licenza elementare. Il tutto fu poi sottoposto all’occhio attento del critico Piero Pancrazi, del latinista Concetto Marchesi e dello scrittore Antonio Baldini che si prodigarono per esemplificare ulteriormente. Alla fine uscì un prodotto, secondo Tullio De Mauro, «inusuale ed estraneo all’intera intera produzione intellettuale italiana, malata nel vocabolario di quel malanno che Antonio Gramsci chiamava ‘neolalismo’ (compiacimento per l’ermetismo lessicale) e nel periodare sedotta dalle frasi lunghe e complicate».
Proprio questo estremo sforzo compiuto decenni fa, secondo Della Valle e Patota, ci aiuta a capire il nostro presente. L’ultimo capitolo di questa ricerca si interroga sullo stato di salute della nostra lingua. Stiamo perdendo il futuro, nel senso che l’indicativo ha soppiantato il verbo al futuro? Stiamo dissipando il congiuntivo (come dimostrano gli svarioni di ministri, sottosegretari e presidenti del Consiglio) oppure siamo troppo esposti al diluvio dell’inglese? Il responso degli studiosi è positivo, l’italiano, errori a parte, non è su una china discendente, nella lingua la purezza non esiste, alcuni cambiamenti sono fisiologici.
Però esiste ugualmente una corsa, osservano gli autori, verso l’imbarbarimento e verso l’impoverimento linguistico. Più di 70 anni fa i padri costituenti si sforzarono di risollevare il parlato comune proprio dando vita a un esempio di italiano che non allontanasse i più semplici e i meno colti ma che al contrario avesse anche una funzione pedagogica. E pure oggi chi ci governa si pone un obiettivo didattico: senatori e deputati, membri ed ex membri del governo, segretari di partito nei tweet, nei comizi, nei dibattiti tv si preoccupano di ostentare la semplicità linguistica che appartiene al popolo. Che però assimilano al turpiloquio. Il linguaggio triviale banalizza la comunicazione. Attiva un processo che immiserisce e depaupera la nostra lingua. Una bella distanza dagli obiettivi di Ruini quando affermava che «la revisione stilistica della Costituzione si è ispirata a intenti di correttezza linguistica e di chiarificazione».