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 2019  ottobre 31 Giovedì calendario

«In Texas le pistole non fumano più»

Dio salvi il Texas: sì, lo Stato tutto chiese e pistole dove vivo. Fra crisi dei migranti e le stragi di quest’estate è diventato il cuore della politica americana: e nel 2020 la sua importanza aumenterà ancora. La popolazione si è moltiplicata, avremo più collegi elettorali e il nostro voto nell’eleggere il prossimo presidente sarà fondamentale. Per questo provo a raccontarlo col mio ultimo libro, un documentario in tre parti per Hbo e presto, pure con un musical». Instancabile Lawrence Wright. Giornalista del New Yorker , 72 anni, è celebre soprattutto per i suoi libri-inchiesta: Le Altissime Torri , che gli valse il Pulitzer nel 2007, racconto di come al-Qaeda architettò l’attentato dell’11 settembre. E La prigione della fede. Scientology a Hollywood dove svela i segreti della setta di Ron Hubbard. Il suo ultimo saggio è appunto Dio salvi il Texas , edito da NR.

Cosa succede dalle sue parti?
«Il Texas sta cambiando rapidamente. Un nuovo fermento sta rilanciando la nostra identità culturale. E i tragici eventi di quest’anno hanno aperto un dibattito profondo, trasformando la visione dei texani su sé stessi.
Siamo la patria delle pistole, l’unico stato che dopo la terribile sparatoria di El Paso, quella dove un suprematista bianco ha ucciso ventidue persone in un supermercato, ha reagito allentando ancora di più le restrizioni sulle armi. Ma se un tempo tutti avrebbero applaudito oggi la gente si ribella, spiazzando i politici, al punto che gli stessi sponsor di quella legge sono pronti a fare un passo indietro».
Secondo molti, il Texas rappresenta l’America che Trump vorrebbe.
«Ho scritto questo libro partendo da una discussione col mio direttore, David Remnick, proprio per spiegare perché certi stereotipi non funzionano più. Il Texas non si riconosce in Trump: basta pensare al muro. Certo, qualcosa va fatto per arginare le migliaia di persone che attraversano il confine senza controllo, lo dico da esperto di terrorismo. Ma a livello politico.
Non certo alzando barriere, impopolari anche per motivi pratici. Il muro presuppone una confisca di terreni. Taglia fuori gli allevatori da quel Rio Grande dove storicamente abbeverano le mandrie. Il confine è parte della nostra storia, ci abbiamo sempre convissuto, a nessuno piace vederlo trasformato in problema».
Le conseguenze?
«Eravamo uno stato solidamente repubblicano. Ora nessuno sa cosa aspettarsi dalle elezioni 2020. Con l’aumento dei collegi elettorali avremo più peso nella scelta del presidente. Se per anni il voto era scontato, oggi siamo campo di battaglia. Lo si vede da quanti politici si fanno già vedere».
Come andrà?
«Dipenderà dalla scelta del candidato democratico. Se sarà un moderato il Texas virerà a sinistra».
Nel libro racconta come da ragazzo non vedesse l’ora di lasciare lo Stato. Perché è tornato?
«Il mio ultimo anno di scuola concise con l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Su Dallas, dove vivevo, gravò lo stigma di quell’omicidio. Il clima era brutto già prima, era una città fascista, fanatica, reazionaria. Non vedevo l’ora di andarmene. Poi, nel 1979, tornai per scrivere un articolo per la rivistaLook . Rimasi folgorato a un concerto. Chiamai mia moglie: "Qualcosa sta cambiando in Texas". Accettai la proposta di un quotidiano locale: ci trasferimmo. E non ho più avuto dubbi. La distanza da New York, centro intellettuale d’America, mi permette di avere un occhio più fresco».
Ha trasformato "Le Altissime Torri", l’inchiesta sull’11 settembre, in una serie tv in dieci puntate. È stato difficile?
«Quel libro è probabilmente la cosa più complessa a cui abbia mai lavorato. Ho viaggiato molto, ho avuto rapporti con terroristi e agenti segreti. Esitavo a trasformarlo in un programma tv ma mi fidavo di Alex Gibney, il regista. Ho scelto di prenderne il controllo come produttore e ho trovato l’operazione di cambiare linguaggio mediatico interessante».
Quel libro le è valso il Pulitzer.
«Un grande onore, anche perché sull’attentato era già stato scritto molto. Sono contento sia diventato una serie perché aiuta i giovani a comprendere una storia accaduta ormai diciotto anni fa, quando erano piccoli o non ancora nati. L’11 settembre ha segnato una svolta: prima eravamo più liberi. Se c’è qualcosa che il terrorismo è riuscito a farci, è stato proprio privarci della libertà. Per questo non dobbiamo dimenticare.
Sarebbe come dargliela vinta».
Inchieste, serie tv, ora perfino un musical. Come fa?
«Mi considero un narratore, racconto storie sperimentando tecniche diverse. Più esploro, più imparo. Il cinema mi ha insegnato a costruire le mie narrazioni basandomi solo su personaggi e fatti, senza preoccuparmi della prosa. Viceversa per scrivere un romanzo devi conoscere profondamente la realtà. E per farlo, non c’è nulla di meglio del mestiere di giornalista».
Il suo prossimo progetto?
«Fra gli obblighi di uno scrittore c’è capire di cosa hanno bisogno i lettori. Ma di questi tempi è difficile. Si fatica a competere col fenomeno Trump: occupa ormai ogni spazio. Faccio un esempio.
Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ucciso a Istanbul nel consolato del suo paese, era un mio amico. Qualche mese fa ho organizzato a Washington una giornata di studi in suo onore.
C’era la leader democratica Nancy Pelosi e altri politici. La sala era piena di giornalisti. Ma quel giorno Trump è andato al confine col Messico. Non è successo nulla ma i giornali hanno trovato spazio solo per lui.
Ecco, competere giornalisticamente col fenomeno Trump, al momento è il centro dei miei pensieri».