Corriere della Sera, 21 ottobre 2019
Su "The Irishman" di Martin Scorsese
ROMA. C’è un quarto protagonista che meriterebbe di avere il nome nei titoli, accanto ai bravissimi Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci ed è la Morte. È lei a riempire di senso The Irishman, è lei ad accompagnare le tre ore e 29 minuti del film (che scorrono in un soffio, credetemi), è lei a trasformare l’ultimo lungometraggio di Martin Scorsese in un film testamento, una summa di tutto quello che ha ossessionato la vita e la carriera del regista.
Gli eroi di Scorsese hanno sempre sfidato la morte, protetti da una comunità che sembrava assicurare loro se non l’immortalità almeno qualcosa vicina all’invincibilità, una sicurezza spavalda e intaccabile. Con The Irishman queste certezze si sgretolano, mostrano i loro limiti e le loro fragilità. «Volevo fare un film — ha detto Scorsese — dove il passare del tempo andasse di pari passo con il senso della nostra mortalità, che mettesse in rilievo la finitezza dei nostri amori, dei nostri sentimenti, che facesse risaltare le perdite e il rimorso».
Sopra a questi personaggi c’è sempre qualcuno più potente, a cui bisogna obbedire. Per la prima volta c’è la Politica, quella vera, quella di chi comanda davvero e soprattutto c’è il senso incombente della Morte, con cui tutti devono fare i conti. Non è per caso se ogni volta che un nuovo personaggio attraversa la strada dei protagonisti, una didascalia ci informa di come è morto: ucciso in casa sua, saltato in aria con la sua auto, crivellato per strada, morto con otto pallottole in corpo…
È in questa atmosfera che ascoltiamo il racconto di Frank Sheeran (Robert De Niro), costretto su una sedia a rotelle in un ospizio, in gioventù camionista irlandese di Filadelfia la cui destrezza nell’alleggerire i carichi di carne che trasportava (e la sua omertà nel non fare nomi) gli procura l’amicizia e la protezione di Russ Bufalino (Joe Pesci), all’apparenza commerciante di stoffe e gioielli, in realtà pezzo grosso della mafia. Per lui Frank farà l’«imbianchino», ossimoro gergale per dire chi i muri li sporcava col sangue delle vittime uccise.
Taciturno, svelto, fidato, Frank viene spinto da Russ nelle braccia di Jimmy Hoffa (Al Pacino) il potentissimo presidente del sindacato autotrasportatori. Di cui diventerà la scorta e il braccio destro, accompagnandolo nella sua scalata al potere e nelle sue alleanze con la mafia (cui prestava i soldi del fondo pensioni per costruire casinò e alberghi), finendo per essere il suo più stretto e fidato amico.
Costruito con fluidi salta avanti e indietro nel tempo, tra i Cinquanta e i Settanta (il montaggio è di Thelma Schoonmaker, tre Oscar e quattro nomination, sempre per Scorsese), il film sfrutta le tecnologie digitali della Industrial Light & Magic per ringiovanire i tre protagonisti: «Non volevo usare altri attori per mostrarli in età differenti. Volevo sempre Bob, Al e Joe. Abbiamo iniziato a lavorarci quattro anni fa, ma alla fine il risultato è arrivato». Facendo però lievitare il costo del film a 160 milioni di dollari, che solo Netflix ha voluto pagare. «Le condizioni erano chiare: a me il finanziamento e una totale libertà creativa, a loro il diritto di mostrare il film in contemporanea con la programmazione in sala. Credo che per vedere i film bisogna prima farli e uno così Hollywood non me lo avrebbe permesso. Se penso che Re per una notte è rimasto in sala due settimane e poi è sparito, non mi sembra un cattivo scambio».
Ripercorrendo la carriera criminale di Sheeran, Scorsese non ne enfatizza le azioni né ne sminuisce le responsabilità morali, lasciando molto più spazio ai silenzi di chi vorrebbe sapere e non ha il coraggio di chiedere, come la figlia Peggy (Anna Paquin). E la sceneggiatura di Steve Zaillian, tratta dal libro di Charles Brandt (Fazi editore) che di Sheeran aveva raccolto le memorie, è molto chiara nel raccontare i legami con la politica, l’appoggio della mafia all’elezione di Kennedy o le simpatie di Hoffa per Nixon.
Ma il film dice tutto questo non per denunciare scandali o fare rivelazioni, piuttosto per tenere i suoi personaggi ancor più sotto una cappa soffocante, che cancella ogni possibile enfasi. Sono pedine di un gioco più grosso di loro. Anche se nel film si ascolta la musica di Grisbì e la recitazione di De Niro ricorda il Max di Jean Gabin, non c’è più il romanticismo della sconfitta. Alla fine, c’è solo il tradimento di una amicizia (con una ipotesi sulla scomparsa di Hoffa che però la giustizia americana non ha avallato) e la storia di una fiducia tradita. Più rassegnata che eroica.