La Stampa, 15 settembre 2019
Su "La mattina dopo" di Mario Calabresi (Mondadori)
«La mattina dopo», il libro scritto da Mario Calabresi (Mondadori), ha ovviamente un giorno prima, quando tutto cambia: non è più il direttore di Repubblica. «Quella mattina mi sono svegliato tranquillo», rivela Calabresi, che doveva incontrare il presidente del gruppo come tutte le settimane. Un incontro di pochissimi minuti. Nessun’altra concessione alla curiosità di molti per quella frattura così profonda. E questa «fine» ha in se un nuovo inizio. Un lungo viaggio, dentro e fuori se stesso. Fino al traguardo «quando ti fai una ragione delle cose e puoi provare a guardare avanti, anche se quel davanti è magari molto diverso da quello che avevi immaginato». Per fare quell’ultimo passo Calabresi deve fare un incontro che ha sempre evitato. «Volevo tornare a Parigi per parlare con Giorgio Pietrostefani, l’uomo che è stato condannato per avere organizzato l’omicidio di mio padre». Accade, in una mattina piena di vento che annuncia tempesta. Arrivano tutti e due in anticipo. «L’uomo che mi trovo di fronte ha la barba bianca, è talmente magro da sembrare la metà di quello di un tempo. Ha quasi 76 anni, ne aveva 28 quel 17 maggio del 1972 quando spararono a mio padre, io avevo due anni e mezzo». Pietrostefani è teso, racconta Calabresi. «Incontrare uno che somiglia così tanto a quel poliziotto contro cui scatenarono una delle più violente campagne di odio della storia del nostro paese, fino al suo omicidio non deve essere stato facile». Un incontro di mezz’ora di cui Calabresi non rivela nulla se non le emozioni e quel messaggio di sua madre Gemma per Pietrostefani: «digli che lo ho perdonato sono in pace è così voglio vivere il resto della mia vita». L’ inizio con il licenziamento, l’arrivo con l’incontro più difficile. In mezzo il percorso Quella mattina senza lavoro spaventa. «E allora non c’è che una cosa da fare, partire». Scappare dalla curiosità della gente e andare a trovare amici con cui condividere il momento e da cui apprendere la difficile virtù della resilienza. I primi sono Roberto Toscano e sua moglie Francesca. Roberto era un consigliere d’ambasciata a Santiago del Cile, l’11 settembre del 1973, il giorno del golpe del generale Pinochet. Decisero di aprire le porte a chi scappava dalle retate della polizia segreta; ha scritto a lungo per «La Stampa» e poi per «Repubblica». «Guardare come è riuscito a riorganizzarsi la vita dopo essere andato in pensione e a rimettersi in piedi dopo la malattia è un vaccino contro la depressione», scrive Calabresi. Parla dell’amico Omero Ciao inviato di Repubblica, esperto di sud America, che ha avuto un ictus sull’aereo che lo stava riportando a Roma da Città del Messico dove era andato a seguire le elezioni. Nei suoi tre anni di direzione Calabresi non lo nominerà inviato per paura che potessero interpretarlo come il regalo a un amico. Ma quando lascia l’ultimo atto formale, sarà la sua nomina. E la rinascita passa per i sentieri della memoria. Dal trisavolo Alberto che produceva vino alla fine dell’Ottocento, Arneis bianco, a Montà, dove inizia il Roero, e aveva avuto la sua «mattina dopo» quando le banche gli avevano portato via le vigne. Passa per l’omaggio all’uomo che lo ha cresciuto, Tonino, il padre adottivo, scomparso nel 2015. Per sua madre Gemma che dopo quel lutto e una malattia non trova la forza di riprendersi «proprio lei che aveva perso il primo marito, mio padre, a soli 25 anni». «C’è voluta un’altra emergenza per salvarla di nuovo», scrive il figlio. Le crisi ci scuotono, fanno ritrovare la forza e un’identità compiuta, anche senza un ruolo (come quello di direttore di un quotidiano, per esempio), a sostenerla. Una dote più femminile che maschile dove gli schemi e gli obiettivi hanno angoli più stretti. In tutte le storie si parte da una cesura, quando l’equilibrio si spezza e occorre ricostruire. Così Calabresi va a trovare in California Andra Bucci, «una ragazza di 80 anni» sopravvissuta ad Auschwitz; e poi Daniela «la garagista» rimasta paralizzata a causa di un incidente in auto. Il giovane medico Damiano Cantone sopravvissuto allo schianto aereo il 9 settembre dell’anno scorso nel lago di Yirol in Sud Sudan. «Voglio sapere come ci si sente il giorno dopo essere scampati a un incidente aereo, come ci si sente dopo che il tuo sogno è svanito». Incontra Yavuz Baydar, giornalista turco, rifugiato a Parigi in seguito agli eventi del golpe del 2016 in Turchia la riconquista del potere da parte di Recep Erdogan. Oggi è il direttore di Ahval, sito web indipendente sulla Turchia. Si incontrano a Perugia, al festival del giornalismo. «Esistono rari momenti in cui una persona si apre e ti consegna le sue memorie, le sue speranze, le sue delusioni», scrive Calabresi, riferendosi all’amico. Ma anche a se stesso. La musica accompagna il viaggio: la canzone degli Oasis «Don’t Look Back in Anger», non guardare al passato con rabbia.