Tuttolibri, 12 ottobre 2019
Su "Per un pugno di cioccolata e altri specchi rotti" di Helga Schneider (Oligo)
La scrittura è stata forse la vera, unica patria di Helga Schneider. Lì ha potuto proiettare se stessa e il suo terribile passato, prosciugando il male nella memoria, rivisitando l’orrore con le parole di una lingua straniera che la metteva al riparo da ogni eco di violenze. Perché Helga, nata in Slesia nel 1937, fu abbandonata dalla madre a quattro anni con il fratellino Peter di diciotto mesi mentre il padre era al fronte. La donna, arruolatasi come ausiliaria nelle SS, divenne guardiana nel lager femminile di Ravensbrück e poi in quello di Auschwitz. Helga nel frattempo finì in vari istituti e collegi per bambini indesiderati e trascorse gli ultimi mesi della guerra in una Berlino ormai ridotta a un cumulo di macerie. Eventi che l’hanno incalzata per tutta la vita e di cui ha offerto intensa testimonianza in libri come Il rogo di Berlino (1995) o Lasciami andare, madre (2001).
Fin dall’inizio degli anni Sessanta l’Italia è stato il Paese d’adozione e l’italiano la sua lingua letteraria, simbiotico strumento ormai con cui ci offre il bel volume di racconti Per un pugno di cioccolata e altri specchi rotti (Oligo editore). Il suo sguardo fisso in quel tempo lontano, sullo sfondo di una tragedia collettiva, scivola ora in una quotidianità intessuta di angosce e speranze. E dà vita a personaggi che si arrabattano tra fame e miseria, vittime di violenze e tradimenti, alla ricerca di qualche briciola di solidarietà. Il realismo di questa prosa, semplice e incisiva, lascia affiorare in ogni pagina la follia di un’intera epoca così come nei dettagli si nasconde il perverso risvolto di un’ideologia brutale.Tanto più convincente è la fragile distanza con cui la scrittrice accompagna i suoi personaggi, non priva di ironia, come nel caso del cane Sep che, felicemente abituato al rumore delle bombe, morirà, alla fine del conflitto, per la troppa pace, o come il signor Martin che amava i temporali e che nel dopoguerra li scambia per bombardamenti e, come impazzito, si rifugia in cantina con la sua maschera antigas. Nessuno sfugge all’abbrutimento di una guerra fatale. Il soldato russo Pàvel violenta la giovane tedesca Gertrud e in preda alla vergogna uccide un commilitone che sta per imitarlo, per poi, disorientato e confuso, suicidarsi. Ma fra di loro c’è anche chi conosce l’umana pietà, come i soldati sovietici che aiutano il giovane ebreo Erich esausto dopo lunghi giorni passati in uno scantinato mentre la capitale brucia giorno e notte. Si è lasciato dietro il cadavere della madre morta di stenti e come in preda al delirio crede di sentirne la voce che lo esorta a uscire da quel buco verso la speranza.
Meglio fuggire e disertare come fanno il nonno e il giovanissimo nipote richiamati nell’aprile del 1945: il Reich non conosce soste nella sua corsa verso l’abisso. Così come ha instillato nei suoi fanatici sostenitori l’imperativo antisemita: padri che invitano le figlie a scovare e denunciare ebrei e signore borghesi che con una manciata di cioccolatini carpiscono fatali segreti a ingenue adolescenti. Il nazismo ha inquinato le coscienze al punto che una figlia plagiata dalla Gestapo si rifiuta di riconoscere, a guerra finita, la propria madre. Versione capovolta del destino di Helga, che nel racconto Una nazista per madre ricorda il vano sforzo di riaccostarsi a Berlino a quella genitrice che con orgoglio ancora conserva la divisa dell’epoca. È in queste pagine autobiografiche, come nel ricordo straziante del fratello morto alcolizzato, che la scrittrice riscopre nella parola letteraria, senza cedimenti né pathos, il pregio di una distanza mai slegata del proprio cuore. A cui non mancano comprensione e perdono, come nel racconto L’intervista, dove la giornalista Annie sente svanire odio e sdegno di fronte al pentimento del vecchio scrittore Sommers. Attraverso gli specchi infranti del passato Helga Schneider tiene viva, oggi più che mai, una memoria che rimuove l’oblio e si nutre di speranza