la Repubblica, 30 ottobre 2019
Da "Demofollia" di Michele Ainis (La nave di Teseo) (dall’introduzione dell’autore)
«È tutta colpa della luna», scriveva nell’Otello William Shakespeare. «Quando s’avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti». Dev’essere successo questo alle nostre istituzioni, dev’essere l’effetto d’un vento astrale, che spinge in giù la luna. Giacché la democrazia italiana è lunatica come un adolescente implume, come una ballerina di flamenco. Da qui la sua cifra distintiva: gli sbalzi d’umore, l’incoerenza, le scelte capricciose. E un’onda emotiva perennemente inquieta, che sommerge la ragione.
Ne è prova, per esempio, l’atteggiamento altalenante verso la giustizia. La Carta costituzionale del 1947 ha un timbro garantista: proclama il diritto di difesa, la presunzione d’innocenza, la mitezza delle pene. All’alba degli anni Novanta, viceversa, siamo diventati manettari, sulla scia di Tangentopoli. Tanto da correggere la Costituzione stessa, rendendo pressoché impossibile l’amnistia per i detenuti delle carceri italiane. Dopo di che, nel decennio successivo, tutti perdonisti, mentre a Palazzo Chigi regnava Berlusconi.
Poi di nuovo giustizialisti, con un applauso collettivo ai giudici, angeli vendicatori contro le malefatte della Casta. E adesso? Ciascun partito è giustizialista e garantista al tempo stesso: feroce con le disavventure giudiziarie degli altri partiti, assolutorio in casa propria.
Questo sentimento biforcuto si è via via impadronito della scena, smontando e rimontando come un Lego i vari pezzi delle nostre istituzioni. La legge elettorale, per fare un altro esempio. Una volta ci innamoriamo del maggioritario, la volta dopo sperimentiamo un ritorno di fiamma per il proporzionale, e il risultato è che dal dopoguerra in poi le abbiamo cambiato i connotati sette volte, quando gli inglesi conservano il medesimo sistema elettorale dal Seicento.
«La demenza non può riconoscere se stessa, così come la cecità non può vedersi», osservò Apuleio. Nei nostri governanti questo difetto cognitivo si somma a una mancanza di memoria, a un deficit d’immaginazione. Non in tutti, si capisce; però i più vivono in un presente eterno, come i bambini. Non conoscono il passato, non hanno abbastanza fantasia per proiettarsi nel futuro. Sicché girano in tondo, scambiandosi ruoli e competenze come durante una quadriglia, il vecchio ballo popolare. Ma a ballare sono soprattutto le istituzioni dello Stato italiano, quando succede che la legge faccia le veci della sentenza (16 inchieste parlamentari deliberate nella legislatura scorsa: un record), quando il governo detta legge in luogo delle Camere (da qui l’alluvione dei decreti), quando la magistratura colma i buchi della legislazione (così, per esempio, circa la stepchild adoption).
C’è una crisi etica dietro questa fuga dalla logica. C’è un infiacchimento delle energie morali, dei valori di riferimento, senza i quali ogni percorso esistenziale sbanda, procede con passo da ubriaco. E dall’Illuminismo in poi (l’età della ragione, per l’appunto) i principi morali si depositano nelle tavole costituzionali. Non per nulla la Carta del 1947 ospita un elenco di doveri (di lavorare, di votare, di educare i figli, d’essere fedeli alla Repubblica) in cui risuona un timbro etico, piuttosto che giuridico. E non per nulla il presidente Ciampi ne parlava come d’una "bibbia laica". Ma quella bibbia è stata bestemmiata a lungo, nella nostra storia nazionale. O più semplicemente ignorata, appesa al soffitto come un prosciutto, lì dove nessuno spinge mai lo sguardo. Dopotutto, nel secolo scorso l’Italia allevò il fascismo senza sbarazzarsi dello Statuto albertino, delle sue garanzie di stampo liberale. Di punto in bianco quella Costituzione divenne carta straccia, però nessuno si prese il disturbo d’abrogarla.
Un destino analogo è toccato in sorte alla Costituzione repubblicana, tradita senza venire riformata. Dunque la crisi di razionalità della politica italiana è una crisi morale, e quest’ultima determina una crisi costituzionale.
Ne è vittima lo Stato, o ciò che in Italia ne rimane. «La ragione di Stato non può opporsi allo stato della ragione», diceva Carlo V. L’invenzione dello Stato di diritto ebbe difatti questo scopo, coincise con l’idea d’assoggettare la convivenza umana a un progetto razionale, liberamente sottoscritto dagli stessi consociati, attraverso il contratto sociale di cui parlò Rousseau. Ogni Stato è un’impalcatura che serve a imbrigliare le passioni. Se l’impalcatura crolla, le decisioni collettive diventano per lo più emotive, effimere come la fiamma d’un cerino, contraddittorie, irragionevoli nel loro bilancio complessivo. E il seme della follia s’impadronisce della cittadella pubblica, della stessa vita democratica.
Forgiando una nuova forma di governo, o meglio di non governo: demofollia, chiamiamola così.
C’è modo d’invertire questa rotta? Forse soltanto opponendo all’impazzimento delle istituzioni italiane una cura di fantasia costituzionale, folle a sua volta, quantomeno stando alle categorie tradizionali. Per esempio attraverso l’uso del sorteggio per formare una quota delle assemblee parlamentari. Con i referendum a risposta multipla, per restituire potere agli elettori. Mediante la revoca anticipata degli eletti immeritevoli (recall).
Facendo pesare il non voto nella determinazione dei seggi da assegnare, dal momento che l’astensionista – ormai l’altra metà del corpo elettorale – resta invisibile nello specchio infranto delle nostre istituzioni. Ricette di buon senso, benché lontane dal senso comune.