Corriere della Sera, 29 ottobre 2019
Su "Prima che tu venga al mondo" di Massimo Gramellini (Solferino)
Massimo Gramellini, in Prima che tu venga al mondo (Solferino), fa il conto alla rovescia da quando ha la notizia della gravidanza fino al momento in cui suo figlio sta per nascere. È una sorta di allenamento alla paternità, o meglio ancora all’idea di paternità — un diario di avvicinamento e della consapevolezza. Termina, appunto, prima della nascita non solo del figlio, non solo della concretezza della paternità, ma anche prima che parta il ronzio.
Il ronzio comincia nel momento esatto in cui un figlio viene al mondo. È sottile, costante, talmente costante che non smetterà mai più. All’inizio ti giri intorno a guardare cos’è che provoca questo ronzio, ti torturi le orecchie, ti agiti — ma la felicità nuova e un po’ incompresa, sul momento, di essere diventato padre, ti distrae. Ridi, mangi, sorridi, piangi, parli, rispondi ai messaggini di auguri e peggio ancora mandi a raffica foto di tuo figlio che ha l’età di tre minuti e quarantadue secondi; ma in realtà ti stai chiedendo: questo ronzio, da dove viene? Cos’è?
È il sentimento dell’ineluttabilità, e si concretizza nella vita quotidiana con questo ronzio che non ti abbandonerà mai più.
È la fine della concentrazione del tuo cervello al cento per cento su ciò di cui vorrebbe occuparsi. È un disturbo ai tuoi pensieri e ai tuoi sentimenti. Un restringimento delle tue facoltà. È un fatto nuovo, che non era mai accaduto prima, quando la testa sapeva immergersi totalmente in un pensiero, esserne catturata fino al rapimento. Ed è un fatto da cui non si torna più indietro. Come se (per intenderci definitivamente) stessi vivendo e allo stesso tempo cercando di rispondere a un messaggio sul telefonino — questa azione, tra l’altro, si aggiunge spesso al ronzio: vivi, convivi col ronzio, rispondi al messaggio — e poi ti dicono: hai capito? No, non hai capito, e in realtà ti sei perso da molti anni un sacco di cose, tutto ti sembra vago come il capitolo di storia che imparavi a scuola, sapevi dire la battaglia di Gonzaga ma la collocavi dove, chi erano i contendenti, quando succedeva? Ti arrabattavi, dicevi cose per metà sensate e per metà insensate, e avanzavi nel mondo avendo ottenuto un voto sufficiente sulla battaglia di Gonzaga, ma nella tua vita e dentro di te la battaglia di Gonzaga sarebbe rimasta per sempre una vaghezza. (Ma volevo fare l’esempio di Gonzaga o di Custoza? Qual è la battaglia che non ricordo bene? Be’, evidentemente tutt’e due).
Ecco cosa fa il ronzio. Ti fa leggere, parlare, guardare, pensare, amare, soffrire — tutto parzialmente, tutto disturbato, tutto incompleto. Perché c’è qualcosa che ti si è piantato nella testa, e che non sei tu, ma un altro essere umano di cui non puoi fare a meno di occuparti. Anche quando non te ne occupi, ti occupa la mente. Ti si è piantato dentro. In ogni luogo dove sei, qualsiasi cosa tu stia facendo, devi sapere dove sta e cosa fa quest’altro essere umano, o almeno sapere che non è in pericolo. Tu vivi in un luogo, e non riesci a vivere soltanto lì, ma anche ripercorri a mente il luogo dove sta in questo momento quell’altro.
Alcuni ritengono questo ronzio bellissimo, altri lo ritengono un ronzio e basta, altri ancora per un po’ di tempo vorrebbero liberarsene, ma molto presto capiscono che non potranno, che devono tenerlo tutto nella testa, così com’è, e per sempre.
C’è un ronzio di qualcuno che deve vestirsi, dormire, fare colazione, capire, camminare, e te ne devi occupare tu. Qualcuno che è arrivato e non se ne va più. Inoltre, il ronzio accompagna (e disturba) un altro fatto nuovo: all’improvviso, la vita non è più implicita, ma esplicita. La devi anche raccontare, devi starci attento. All’improvviso ti fai domande su come stai vivendo, su come ti guarda quell’altro; e poi cominci a rispondere a qualsiasi domanda. E ti rendi conto che le domande a cui devi rispondere sono importanti e stupide, ma sono tutte. E qualche volta è perfino più facile rispondere alle domande decisive, perché in qualche modo te le eri poste anche tu. Ma poi c’è qualcuno a cui devi spiegare tutto, anche perché all’improvviso le pere, che erano un frutto risibile, si siano trasformate in un ingrediente irrinunciabile in qualsiasi tipo di torta; perché l’olio di palma è stato tolto da ogni prodotto esistente sul mercato, e quindi perché su ogni confezione c’è scritto «senza olio di palma»: in fondo, se non c’è, perché scriverlo? E soprattutto l’altro ti chiede cos’è questa borraccia fucsia che hai portato a casa e tu devi rispondere che è vero, è successo qualcosa, forse un paio di mesi fa: da un giorno all’altro, sono scomparse tutte le bottigliette di plastica e sono state sostituite da borracce colorate che ti danno in omaggio in qualsiasi posto — io ne ho una anche del mio studio dentistico adesso, con impresso il nome del tipo che mi fa la pulizia dei denti, e quando me la fa e mi dice adesso sciacqua e sputa non mi dà più una medicina blu nel bicchierino di plastica ma questa borraccia fucsia (quasi tutte le borracce sono fucsia) da cui bere la medicina blu per poi sciacquare e sputare.
E a nessuno importa più che i biscotti siano buoni, o di fare bene il proprio lavoro, ma soltanto che ci sia scritto sulla confezione «senza olio di palma», e che abbiano delle borracce stilizzate plastic free che rende così orgoglioso chiunque stia vivendo in quest’epoca (gli ultimi due mesi). Devi capire il senso della storia (e a questo punto anche della battaglia di Gonzaga, o di Custoza, o di tutt’e due), devi saper rispondere a tutte le domande, e sopra ogni altra cosa devi prepararti al fatto che un giorno nella tua vita torneranno le espressioni matematiche, e in quel momento ti renderai conto che era quello il senso, il compito che avevi dato alla tua esistenza: dimenticare cosa fossero le espressioni nell’ora di matematica. Così potevi definire la tua vita, potevi dire a te stesso: ecco, io qualcosa ho fatto nella vita, sono riuscito a rimuovere completamente le espressioni matematiche. E adesso ti ritornano in faccia, inesorabili, a causa di quell’altro che ha portato nella tua vita il ronzio. Di buono c’è che puoi condividere l’entusiasmo, in questi giorni, della nascita dei biscotti alla Nutella, per i quali pare abbiano studiato anni, e adesso quell’altro li aspetta insieme a te (senza un figlio, nessuno potrà capire questa attesa, e la vivresti in assoluta solitudine, senza nessuna comprensione da parte dell’umanità).
Prima che tu venga al mondo sono anche gli ultimi nove mesi in cui Gramellini, come tutti noi padri, vive senza quel ronzio, e non sa che sta per arrivare accompagnando Tommaso. Non importa che accadano tragedie o fatti minuscoli; la testa di ognuno di noi da quel momento in poi è occupata dal ronzio. L’unica cosa positiva — che è anche la salvezza — è che, come tutto ciò che accade ininterrottamente, a un certo punto diventa la nostra vita, e così prima pian piano ci abituiamo, e poi in qualche modo riusciamo a non sentirlo più. E ci sembra che quello che facciamo, quello che pensiamo, i nostri progetti e i nostri desideri si siano di nuovo presi tutta la concentrazione. Ma anche se adesso riusciamo a non sentirlo più, il ronzio c’è. Noi non ci pensiamo più, ma c’è. Tant’è vero che non ricordiamo più com’era la vita, e il cervello, prima di quel ronzio.