Corriere della Sera, 30 ottobre 2019
Su "Prima che tu venga al mondo" di Massimo Gramellini (Solferino)
«Scrivere è giocare con il corpo della madre» (Roland Barthes). Non pochi tra i bambini fulminati da orfanità si ritrovano adulti con una penna parafulmini in mano. E non pochi tra questi, non osando procreare, si trovano a completare il quadro diventando orfani — per così dire — anche di figli. Sono loro stessi i propri figli perenni. Successivi passi appaiono minati. Qualcuno invece, cautamente, lentamente, magari non presto, anzi quasi in ritardo, eppure in tempo, benché ovunque si ergano cartelli, come nel dopoguerra, con scritto attenzione mine, riesce a compiere il passo. «Perché non fare un figlio come un melo fa una mela?» (Italo Calvino, Fiabe italiane). Ecco dunque Massimo Gramellini, nonostante quell’antica materna «scheggia piantata nel cuore» (come si legge in Fai bei sogni) farsi grande luminoso albero di mele, non dall’oggi al domani però, operazione delicata, nove mesi suo figlio per diventare figlio, nove mesi Gramellini per diventare padre (Prima che tu venga al mondo, in libreria da domani per Solferino è infatti suddiviso in nove capitoli, uno per ogni mese di gravidanza). Mamma Simona Sparaco è invece già prontissima («la madre che ogni figlio vorrebbe») grazie al sapiente rodaggio di anni con lo strepitoso primogenito figlioletto Diego.
Tra i libri su questi temi, questo è diverso, come tra tante piantine tutte uguali una con qualche sepalo strano, che si fa notare. È questione di radici, quelle dell’autore hanno fatto un percorso più lungo e accidentato nel sottosuolo. Radici che a un certo punto, quando erano ancora delicati filamenti, hanno conosciuto l’improvviso taglio di una cesoia, qualunque giardiniere può confermare che quella diventerà una pianta diversa con una storia diversa.
Detto tutto questo, nonostante tutto questo, con questa storia voliamo leggeri («l’eccesso di pena sorride» Blake), anzi non solo sorridiamo, ridiamo proprio, perché nelle pagine si rincorrono non solo bambini anagrafici come Diego e Tommaso (nato il 19 febbraio di quest’anno) ma, poiché «non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice» anche il bambino Massimo (peso neonatale grammi 3.240 / peso da quasi padre grammi 86.700; dopo il calo fisiologico grammi 79.999). Chi a 9 anni l’infanzia l’ha persa, può a 59 ritrovarla, e a 59 scrivere con Diego la filastrocca verde: «Fratellino caro / se il tuo sedere perde / corri subito in bagno / a far la cacca verde». Divertenti e utili le pagine con i suggerimenti per gestire la naturale gelosia di Diego e tra i passaggi migliori anche gli impagabili dialoghi con Norberto («zio Norberto è uno che non c’è mai, tranne quando ne hai bisogno»).
Umorismo con coloriture poetiche ( «tu e tua madre siete una pancia bellissima, sdraiata sul letto come una balenottera spiaggiata»), ma soprattutto umorismo con intermittenza, come le luci dell’albero di Natale che aprono e chiudono gli occhi continuamente e quando tocca al buio le ombre del passato ne approfittano per affacciarsi, a volte possono nascondersi in un avverbio, per esempio in un «persino», come nella seconda pagina del libro: l’autore sta sfogliando l’album di famiglia (ordigno da maneggiare con cautela), nella fotografia del suo primo compleanno sono presenti oltre a parenti vari, «persino» ben due genitori. L’autore confronta questa fotografia con quella del suo decimo compleanno, usa poche parole, ma il lettore viene condotto in un baleno fin sull’orlo della voragine.
Scrisse Marina Cvetaeva «sono cresciuta senza madre, cioè sbattendo contro tutti gli spigoli possibili»: le cicatrici d’infanzia, non quelle da ginocchia sbucciate, le altre, possono oscurare i futuri sorrisi, inquinarli, trasformarli in bronci perenni, in sterile gelido sarcasmo, o possono al contrario illuminarli, è la luce dell’ironia, una fruttifera ironia. E Prima che tu venga al mondo di ironia trabocca proprio, c’è tanta acqua, natale e prenatale in queste pagine (in Fai bei sogni c’era la neve), e l’ironia è la zattera, una grande ospitale zattera, dove possono approdare e trovare tregua le paure dell’autore e anche quelle dei lettori. È la stessa ironia che corregge (in senso di grappa) i «Caffè» del mattino che qui sul «Corriere» Gramellini ci offre (senza aumento al banco per la correzione). Metà delicati, metà così forti da staccarti la pelle dalle ossa per lo sdegno che li muove, provvidenziali in tempi in cui quasi nessuno fa più una piega, qualunque cosa accada, l’indignazione sarebbe materia da insegnare a scuola, i «Caffè» fanno intanto da validi supplenti.
In Prima che tu venga al mondo è tratteggiata in punta di penna anche la figura del padre dell’autore (bello sarebbe uno scaffale ai babbi dedicato, tra le opere più intense quella di Valerio Magrelli, Geologia di un padre); Gramellini si domanda se abbia avuto a che fare con la propria lunga renitenza a procreare, no, conclude, «ad alimentarla era il timore che, diventando padre, avrei smesso di essere figlio». A lettura conclusa di questo gioioso libro, possiamo dire: tranquillo Gramellini, lei sarà un padre-figlio per sempre, con anzi forse qualche ettogrammo in più di figlio sulla pesa-persone più volte nel libro evocata; bilancia da tenere comunque d’occhio: il suo ago, come ahimè in molti ben sappiamo, è tra i più lunatici e mutevoli.
P.S. E da una mia personale statistica risulterebbe inoltre che gli orfani mantengono un bambinesco viso rotondo fino a tardissima età.