Corriere della Sera, 26 ottobre 2019
Su "Sciascia l’eretico" di Felice Cavallaro (Solferino)
C’era una volta, nella Contrada Noce a pochi chilometri da Racalmuto, il paese-pianeta delle Parrocchie di Regalpetra, un «vecchio apparecchio telefonico di nera bachelite appeso nella stalla» di un pianoro non distante dalla casa estiva di Leonardo Sciascia. Era l’unico telefono della zona. Da lì, da quella stalla, Sciascia chiamava editori, giornali, amici scrittori. E quando squillava una campana collegata alla suoneria del telefono, i ragazzini che giocavano nei dintorni avvertivano il grande scrittore che era stato cercato da un certo Pasolini, o Sellerio, o Montanelli, o Ronchey, o chissà quale altro nome importante della storia italiana della cultura e del giornalismo. Quell’apparecchio di «nera bachelite» è il simbolo di un mondo antico ma vivace, libero, indipendente che si è incarnato in un intellettuale di cui la Sicilia e l’Italia dovrebbero andar fieri. E cioè nello Sciascia l’eretico, come suona il titolo di un ritratto appassionato e ricco di una vasta e sorprendente aneddotica che dello scrittore siciliano, a trent’anni esatti dalla morte, è stato scritto da Felice Cavallaro per la casa editrice Solferino.
Una girandola di incontri, libri, articoli, amicizie, controversie che Cavallaro ricostruisce con puntigliosa precisione e che dimostra quanto l’intera attività letteraria, politica, pubblicistica, editoriale di Sciascia sia stata contrassegnata e scandita da un costante tiro al bersaglio per colpire un intellettuale che ha fatto dell’irregolarità controcorrente, dell’originalità di approccio alle cose e alle idee, del coraggio nel sostenere posizioni anche minoritarie la sua cifra più compiuta.
Lo Sciascia rievocato da Cavallaro era un anticonformista sì, ma senza le pose, la magniloquenza, l’esibizionismo vittimista dell’anticonformista di professione. Esercitava la sua autonomia di giudizio con la pazienza tagliente e icastica dell’illuminista volterriano che argomentava con una scrittura affilata come un bisturi, voleva sottoporre a rigoroso scrutinio ogni idea, ogni iniziativa politica, ogni dettaglio delle opere che leggeva e commentava. L’aspetto straordinario che ha reso Sciascia una figura unica nel panorama culturale italiano, più ancora di Pier Paolo Pasolini ammesso che abbiano un senso certe classifiche, era il suo indomito coraggio nel respingere ogni spirito di tribù, il conforto protettivo della maggioranza che segue la corrente, delle parrocchie chiuse e intolleranti, non come quelle di Regalpetra.
Lo attaccavano tutti, da destra e da sinistra, perché tra la verità e la convenienza politica, o la faziosità manipolatrice, lui sceglieva sempre e implacabilmente la verità. Oppure, se «verità» è nozione troppo impegnativa, Sciascia sceglieva il ripudio della menzogna, dei pregiudizi, delle piccole e grandi alterazioni dei fatti che spesso ammorbano la militanza politica e l’ansia di schierarsi degli intellettuali. E per questo riceveva attacchi biliosi, smoderati, violenti. Per le sue polemiche sui «professionisti dell’antimafia», l’estremismo intollerante arrivò a decretare l’espulsione di Sciascia dalla «società civile», nientemeno. Per aver sposato la causa dei radicali di Pannella, Renato Guttuso, vestale dell’ortodossia comunista, disse che sarebbe stato impossibile per lui frequentare un apostata come Sciascia. Ma gli attacchi furono ripetuti e hanno abbracciato si può dire quasi tutta la produzione culturale di Sciascia, con una pretestuosità animata dallo spirito di branco con cui l’irregolare veniva guardato con sospetto e animosità.
Cavallaro li ricorda tutti, uno per uno, in questa appassionante biografia, intellettuale e umana insieme. Una sequenza di agguati velenosi, di tentativi di messe al bando che, vista tutta insieme come nelle pagine di questo libro, lascia sgomenti e interdetti. Attaccarono Sciascia per il suo bellissimo Il giorno della civetta, il libro che pure aveva disvelato agli occhi della Sicilia e dell’Italia i tratti dell’«antropologia» mafiosa. A ciascuno il suo suscitò molti malumori nel mondo cattolico ed ecclesiastico in particolare. Il contesto non piacque ai comunisti. Todo Modo non piacque ai democristiani. Per la sua indagine sulla scomparsa di Ettore Majorana, un racconto strepitoso per mettere in luce i risvolti più inquietanti di un grande mistero, fu accusato addirittura, lui uomo dall’inscalfibile fede illuminista, di coltivare pregiudizi contro la scienza. Con L’affaire Moro si consumò una rottura drammatica con il mondo legato al Pci e anche alla Dc.
Venne ritagliata su Sciascia una figura caricaturale e deformata. Gli misero in bocca una frase che non aveva mai pronunciato: «Né con lo Stato né con le Br». Il suo rifiuto del terrorismo era intransigente, ma anche la critica ai modi e ai comportamenti dello Stato italiano non avrebbe dovuto, a giudizio dello scrittore di Racalmuto, essere appannata nel nome dell’emergenza nazionale. E mai, proprio mai, lo Stato di diritto avrebbe dovuto e potuto cedere sui suoi principi non negoziabili pur di ottenere un risultato. «Tutto è legato per me al problema della giustizia, in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo», scrisse Sciascia. Parole che non potevano essere ignorate, visto il prestigio di chi le pronunciava, ma che valsero al suo autore, impegnato in una battaglia senza requie contro l’infamia che stava massacrando Enzo Tortora, attacchi furibondi. Che Cavallaro documenta con affetto, ma con acribia da archivista. Per restituire un ritratto dello scrittore A futura memoria, come recita il titolo della raccolta di saggi e articoli scritti da Leonardo Sciascia prima della sua morte, il 20 novembre di trent’anni fa.