il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2019
I big americani smettono di (auto)gonfiarsi in Borsa
È solo un segnale, magari isolato e che non avrà ripercussioni. Ma il suo rumore è forte e indica un certo nervosismo tra i manager della Corporate America che rischia di finire per riverberarsi sul listino azionario più significativo a livello globale. L’avvisaglia è nella caduta dell’indice di fiducia dei ceo Usa raccolta dagli analisti di Goldman Sachs in una dello loro periodiche ricognizioni. Nel corso di quest’estate, infatti, il livello di confidenza sul futuro – complice la crisi dei dazi e una stagione dei profitti meno brillante del solito da parte dei capi-azienda Usa – sarebbe scesa ai minimi dai tempi della Grande Crisi finanziaria. Il clima di incertezza geopolitica, le frizioni con la Cina e lo spettro di una nuova recessione globale rendono i top manager nervosi.
Il 53% dei direttori finanziari delle big Usa si attende una recessione americana nel terzo trimestre del 2020, percentuale che sale al 67% di chi si attende la recessione entro la fine del 2020. Se lo scenario atteso è questo, le aziende si muovono per tempo reagendo nell’unico modo possibile. Frenare l’attività, spendere meno, trattenere più liquidità pronta in casa. Un atteggiamento già fotografata dagli analisti di Goldman Sachs che hanno registrato una forte frenata nella spesa da parte delle imprese dell’S&P500 già nel secondo trimestre di quest’anno precipitando del 13%, la caduta più forte dal 2016. Una battuta d’arresto che porterà a una frenata sull’intero 2019 del 6%. In soldoni sono 150 miliardi di dollari che verranno a mancare al motore dell’attività economica.
Un rallentamento che impatterà soprattutto sui buy back, il riacquisto di azioni proprie da parte delle aziende, fenomeno che ha contribuito a drogare le quotazioni azionarie delle stesse società. Le stime di Goldman Sachs parlano di oltre 120 miliardi di dollari in meno come munizioni per i riacquisti di azioni. Meno soldi quindi nel circuito della Borsa Usa, a cui si accompagna uno scenario che vede la crescita del gigante a stelle e strisce decelerare e con essa anche la marcia dei profitti aziendali che in passato crescevano con percentuali a doppia cifra. Per il Pil Usa, infatti, il rallentamento nel 2019 si è manifestato, mentre gli utili nel terzo trimestre hanno segnato su base annua un -4% e le proiezioni al 2020 vedono incrementi sotto il 10% anziché il 20-25% fatto segnare dal paniere delle imprese dell’S&P500 nell’intero 2018. Da qui a dire che Wall Street rischia grosso ce ne corre. Solo ieri l’indice S&P500 ha aggiornato un nuovo massimo storico a quota 3.040 punti. Siamo ormai entrati nel decimo anno consecutivo di rialzi pressoché continui: nella primavera del 2009 l’indice principale valeva poco meno di 700 punti. Oggi siamo oltre quota 3.000 con una crescita del 330%.
Numeri formidabili che hanno fatto la fortuna degli investitori, ma che amplificano all’inverosimile lo stato di salute dell’economia reale. Certo il Pil Usa è cresciuto a tassi anche sopra il 3% annuo nel decennio, le imprese hanno incrementato gli utili a doppia cifra (soprattutto hi-tech, petroliferi e big pharma), ma è innegabile che siano state le politiche ultra espansive delle banche centrali, Fed in testa, a dirottare masse enormi di liquidità sui listini azionari. E la cassa in eccesso delle imprese è finita in buy back azionari. Ora quella spinta, almeno quella dei riacquisti, perde mordente. E la politica monetaria ha finito le sue munizioni. Il paracadute esogeno si fa meno ampio e tutto torna in mano alla velocità dei profitti. Se anche lì dovesse esserci come gli analisti presumono una frenata, allora quel segnale delle imprese che tirano la cinghia sulla spesa potrebbe essere sì un campanello grosso d’allarme.