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 2019  ottobre 30 Mercoledì calendario

Intervista a Ermanno Cavazzoni

Alieni, miracoli, Voltaire tirato per la giacchetta (della fede) sul letto di morte, la vita nell’aldilà, i premi letterari, i tentativi (falliti) di carriera politica, le merde di cane per strada a Bologna, i pittori del Po. Quelle di Ermanno Cavazzoni sono Storie vere e verissime (La nave di Teseo, pagg. 222, euro 18), concetto che lo scrittore, nato a Reggio Emilia, ribadisce anche nella sua «Avvertenza»: «Non volevo che il libro fosse preso per letteratura: è realtà». Raccontata, però, con uno stile così ironico, da sembrare proprio letteratura...
Da dove arrivano queste Storie vere e verissime?
«Beh, più o meno sono tutte cose vere, o riflessioni mie su cose vere, o che mi sono accadute. Lo considero un libro di racconti non inventati. O, meglio, storielle, perché il racconto rimanda a una trama, mentre la storia è meno impegnativa».
La mancanza di una trama è un tratto del libro?
«Direi che c’è un certo atteggiamento nel raccontare, una certa fedeltà a un umore, a un piccolo grado di comicità, forse».
Forse?
«Parlo di cose di questo mondo che tutti conoscono».
Parla molto anche dell’aldilà, come mai?
«Sì, certo. La questione non è secondaria, né legata solo alla fede. Tutto il nostro mondo è orientato all’aldilà, al futuro: le speranze di costruire una società migliore, le promesse del Novecento, chi fa i miliardi o aspira a vincere milioni alla lotteria, per lasciarli ai posteri... Le considero tutte illusioni, con cui conviviamo. Ci sono poi anche piccoli fatti quotidiani, come il sorridere nelle foto».
A cui dedica la storia: Perché si sorride in foto.
«Se un alieno venisse sulla terra e ci vedesse tutti sorridere in foto, rimarrebbe stupefatto. È voler lasciare una immagine di sé come beato e felice, una moda passeggera e assurda, come quelle parrucche enormi, nei ritratti del ’600. Spero ci disabitueremo presto».
Scrive: «Va di moda la felicità». C’è un antidoto?
«È un comportamento profondamente falso. È l’ottimismo obbligato, diffuso soprattutto fra i politici, che promettono un luminoso avvenire, se li si vota. Succede solo nella nostra epoca».
A proposito di politica, è vero che anche lei tentò una carriera, nel partito comunista?
«È tutto vero, quello che racconto. Ho tentato. Come tutti quelli che, a 18-20 anni, fan politica per insipienza, si esaltano, a destra e a sinistra, hanno quel gas che li spinge a emergere, a scalpitare».
Il suo tentativo non è andato benissimo.
«Assolutamente no. Per fortuna mia è andato malissimo».
È svenuto davvero al primo comizio?
«Davvero. Era un comizio di Ingrao e dovevo parlare come studente del movimento, sa quelle cose eterne, e prima non provavo alcun panico, ma poi, sul momento, sono venuto meno. Mi hanno portato una sedia. Nel mondo della sinistra di allora ero diventato un po’ famoso, perché nessuno lo avrebbe confessato, è una debolezza estrema».
Oltre che all’aldilà, è interessato agli ultimi istanti di vita, per esempio di Totò, di Foscolo, di Gogol: perché?
«Sono attento a come ci si avvia alla fine, una esperienza universale. Le ultime parole si ritengono di grande saggezza, invece spesso sono prive di significato, come quelle di Gogol: Presto! una scala!. Eppure se ne resta magnetizzati, per il potere del momento».

Prende in giro anche Pascoli, e parla di certe relazioni «ambigue» nella sua famiglia.
«È tutta la verità, sa, e ho una ammirazione infinita per il Pascoli poeta, nonostante la scuola. Però quello che racconto rivela che, in fondo, Pascoli è un poeta decadente, con una componente di morbosità come Baudelaire; solo che Baudelaire le esplicitava, queste sue piccole perversioni, mentre Pascoli le nascondeva dietro queste poesie, che sembrano infantili, e però, in realtà, sono più acute. Fra Pascoli e Baudelaire, io a Pascoli farei un monumento più alto».
L’ironia pervade tutto il libro.
«Non riesco a fare diversamente. È un po’ la mia prigione, riesco a scrivere o a parlare solo se considero l’assurdità e la contraddizione delle cose, e ci scherzo sopra».
È parte del suo animo emiliano?
«È una tendenza della letteratura emiliana, a partire da Ariosto. Adoro Stanlio e Ollio, che, con i loro sketch, dicono di questo nostro essere eterni bambini, come diceva anche Fellini».
Con Fellini ha lavorato alla sceneggiatura di La voce della luna, tratta da Il poema dei lunatici. Come è successo?
«Il poema dei lunatici è stato il primo libro che ho scritto; lui lo aveva visto in libreria, lo aveva sfogliato e aveva riconosciuto delle cose che anche lui pensava, delle fantasie, così mi ha chiamato alle sette del mattino, con la sua vocina, e io credevo che fosse uno scherzo, invece poi ho sentito che era lui».
Che cosa ha provato?
«Un enorme piacere. È stata un’epoca di frequentazione, più che di lavoro: passeggiare, chiacchierare, prendere appunti... Ho imparato parecchio sull’atteggiamento nei confronti dell’arte, sul prenderla come un piacere, una piccola mania. Diceva: Pensa un po’, mi diverto e mi pagano anche, per questo».
È un atteggiamento anche suo?
«Non fare forzatamente, non intestardirsi, per esempio a scrivere, o a fare politica. Lasciare che le cose arrivino, i film per lui, o questi pezzi, queste storie, per me. Senza fatica».
Una storia è dedicata a un altro suo amico, Gianni Celati.
«È come un caro fratello. Siamo molto diversi di temperamento e di umore, io mi considero uno stoico, lui è più animato e pieno di risoluzioni improvvise. Mi ha influenzato molto come autore».
In che cosa?
«Rimasi a bocca aperta di fronte alla novità dei suoi primi libri, per il suo stile un po’ basso, semplice, da bambino delle elementari. Arrivare a questa semplicità, riuscire a scrivere come uno che abbia appena imparato, è bello. Io non faccio lo stesso, ma lo ammiro molto. Come Fellini, anche lui molto diverso».
C’è qualcosa in comune?
«Fellini non si preoccupava mai della trama, nei suoi film, ed è quello che li rende freschi, come sogni che si succedono, e ti incantano, con scene memorabili».