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 2019  ottobre 30 Mercoledì calendario

Dove l’antidoping non arriva mai

La cittadina di Ifrane nella ridente regione di Fès-Meknès sugli altipiani del Marocco. La regione di Addis Abeba in Etiopia e la Rift Valley keniana. Le montagne attorno a Medellin in Colombia, l’insospettabile Cipro (versante greco), la montagna slovena, Saransk nella Mordovia russa, l’intramontabile Tenerife. Benvenuti nei paradisi del doping. Rifugi perfetti dove atleti di tutto il mondo trascorrono settimane o mesi di training profittando dell’aria pulita ma anche della scarsità o dell’assenza di controlli a sorpresa, gli unici ormai in grado smascherare chi bara. 
Un fronte caldissimo non solo per le ennesime manipolazioni dei sovietici. La Cycling Anti-Doping Foundation (Cadf) – pioniera ed esclusivista dei controlli nel ciclismo – ha scritto una lettera aperta contro la federazione internazionale che le ha dato il preavviso di benservito dopo un decennio di servizio. I costosi investigatori della fondazione incastrano ormai solo dopati di terza schiera, venezuelani, iraniani, azeri, indonesiani. Discorso analogo per l’atletica e altre discipline di resistenza: prestazioni mirabolanti, bari zero. 
Tutti puliti? L’unica certezza è la crisi irreversibile dei controlli a sorpresa. Il motivo? I paradisi del doping. Luoghi in cui (legittimamente) atleti di tutto il mondo fanno base per allenarsi ma dove i controllori non arrivano o, quando arrivano, non trovano chi cercano. In un contesto dove il doping è rilevabile solo poche ore dopo la sua somministrazione, una falla gigantesca.
Richiesto da un cronista di Le Monde di spiegare quanti esami a sorpresa ha subito nella sua Colombia, Egan Bernal ha risposto: «Non ne ho idea». Alla reazione del giornalista («Ci dia un numero approssimativo: da 1 a 100?»), il vincitore del Tour 2019 (che, precisiamo, è lontanissimo da ogni sospetto) ha replicato: «Non so rispondere». 
Alla domanda non rispondono nemmeno gli organismi di controllo: fornirebbero numeri imbarazzanti. Inviare in villaggi sperduti a 3.000 metri di quota i controllori, rintracciare gli atleti, spedire i campioni a un laboratorio europeo (in America Latina ce ne sono due e a operatività ridotta, in Africa per ora zero, dei misfatti di quelli russi si sa) presenta difficoltà logistiche ed economiche insormontabili per le autorità antidoping. Non per gli atleti che sono tornati a fare lunghi training in Sudamerica a dispetto di percorsi estremi, differenze di fuso orario, viaggi disagevoli.
Il caso di Clémence Calvin – nota come l’Indiana Jones della maratona francese dopo la rocambolesca fuga di aprile dai controllori transalpini in un suk del Marocco – è emblematico. La Calvin (negli ultimi anni migliorata enormemente nei 42 chilometri) passa mesi a Ifrane, in Marocco, località celebre tra i fondisti di tutto il mondo. Obbligata a localizzarsi sulla app Adams di reperibilità dell’agenzia antidoping, Calvin giostrava tra diversi indirizzi, giocava sui numeri civici, lunghe e impreviste spese al mercato, allenamenti in zone terze. Inafferrabile. Nemmeno l’agenzia antidoping francese – unica al mondo autorizzata a operare all’estero – è riuscita prelevarle campioni biologici. Ifrane – come gli altipiani di Addis Abeba in Etiopia o la Rift Valley keniana, dove l’Epo è in libera vendita – è zona franca, con vedette e funzionari di dogana pronti ad avvertire dell’arrivo di ficcanaso.
Più sfumati ma non meno preoccupanti i ruoli di Cipro – base di centinaia di atleti russi – e delle alpi slovene, alla ribalta da febbraio dopo un blitz della polizia austriaca che ha incastrato ciclisti e loro consulenti legati al paese ex jugoslavo. E poi Saransk, Mordovia russa, dove operano molti coach radiati.
Di rimedi possibili a breve termine non se ne vedono. La federazione francese di atletica leggera sta pensando di vietare alcune località agli atleti, ma la norma è giuridicamente complessa da scrivere. Per controlli efficienti servono tantissimi soldi. Disponibili per il doping ma che nessuno ha o vuole investire nell’antidoping.