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 2019  ottobre 30 Mercoledì calendario

Groenlandia senza ghiaccio

Della foca spunta solo la testa che nel mare calmo e senza una ruga sembra una palla lucente. L’animale ci fissa, forse incuriosito dal malconcio fuoribordo dal quale, trattenendo il fiato, il cacciatore già l’inquadra nel mirino della sua carabina. La foca non intuisce il pericolo, indugia a reimmergersi. Una schioppettata rompe il silenzio del fiordo e per Inooraq Heilmann, inuit di 46 anni, quella creatura troppo fiduciosa diventa la prima preda della giornata. «Ho dovuto imparare a cacciarle in mare aperto e non più sugli iceberg, perché adesso fa troppo caldo, e i blocchi di ghiaccio si sciolgono molto in fretta. Basta dire che la settimana scorsa c’erano 14 gradi: fino a pochi anni fa non si raggiungeva neanche a fine luglio», spiega Heilmann che ha accettato di portarci a caccia sul suo "Louise", un piccolo Boston Whaler del 1973, con un nuovissimo motore da 200 cavalli. Esile, con gli occhi da esquimese, la carnagione scandinava, quattro giorni a settimana Heilmann fa il tassista nelle capitale Nuuk, e gli altri tre, sia pure abitando in un appartamento con il riscaldamento centralizzato e la tv a schermo piatto, cerca di perpetrare la tradizione dei suoi avi del Grande Nord, quel popolo che per secoli ha vissuto soltanto di caccia e di pesca. «Vendo la carne di foca 50 corone al chilo (circa 6 euro) che mi bastano appena per fare il pieno di nafta, ma qui, a mezz’ora di navigazione da Nuuk, ho il più bell’ufficio del mondo», aggiunge indicando il paesaggio che ci circonda, nella splendida solitudine di gelide acque blu petrolio chiuse tra montagne che si ergono maestosamente, mostrando cime appena infarinate di neve.

L’estate scorsa per due motivi s’è molto parlato della Groenlandia. Il primo è stato l’offerta di comprarla del presidente americano Trump, subito respinta dalla neo primo ministro danese, Mette Frederiksen; l’altro, ben più inquietante, è stato l’improvvisa e globale consapevolezza della velocità con cui sta scomparendo la calotta glaciale che ne ricopre quasi interamente la superficie, con un record registrato il primo agosto, quando si sono sciolte 11 miliardi di tonnellate di ghiaccio, sversando negli oceani l’equivalente di 4,4 milioni di piscine olimpiche. Ora, l’isola più grande del mondo, pari a sette volte l’Italia, fa gola a molti, e non solo agli Usa che dal 1951 hanno una base militare con un importante radar antibalistico. Infatti, sulla piattaforma continentale della Groenlandia, Mosca vorrebbe riaprire le sue basi missilistiche della Guerra Fredda, mentre Pechino è più interessata all’apertura del Passaggio a Nord Ovest e alle immense riserve minerarie, soprattutto quelle delle " terre rare" indispensabili agli smartphone, che la scomparsa dei ghiacci rende accessibili. L’anno scorso, come cavallo di Troia, la Cina ha provato a finanziare il rinnovamento di due aeroporti locali, ma Copenaghen ha bloccato l’appalto pagando parte dei lavori, e nel 2016 fu improvvisamente annullata la vendita di una base navale groenlandese perché il solo compratore che s’era presentato era cinese.
Dei 56.000 groenlandesi, solo 3.000 sono cacciatori con licenza, ma si contano molti più pescatori che fanno del merluzzo la principale ricchezza del luogo, più del turismo e del petrolio. «Siamo noi le prime vittime del cambio climatico perché molti mesi l’anno non possiamo né cacciare né pescare. L’inverno non c’è abbastanza ghiaccio per le slitte o per le motoslitte, che ormai arrugginiscono nei garage, ma c’è spesso troppa neve per uscire con la barca», dice Heilmann.
Non è stata mai violenta, la colonizzazione danese, ma semmai "paternalistica", perché ha costruito ovunque ospedali, aeroporti e centri commerciali, e perché ha dotato ogni remoto villaggio di una scuola e di un ufficio postale. Nella capitale, dove il primo quotidiano in groenlandese fu fondato nel 1868, ci sono il parlamento locale, una mezza dozzina di ristoranti, un bel museo sulla storia degli esquimesi, un’università dal 1987 e oggi perfino un gruppo Lgbt. «In due generazioni gli inuit si sono adeguati alla way of life scandinava ma la loro cultura tradizionale è stata cancellata», ci spiega l’antropologo francese Jean-Michel Huctin dell’Université de Versailles Saint-Quentin-en-Yvelines che incontriamo in un festival rap di Nuuk. Huctin ha trascorso gran parte degli ultimi vent’anni a queste latitudini cercando di capire in che modo, dopo essere riusciti a sopravvivere per secoli a temperature polari, gli inuit hanno saputo adattarsi alle concentrazioni urbane dove i danesi li hanno costretti a vivere, all’inquinamento, e all’invasione e al sopravvento della cultura occidentale. «È stata dura per molti di loro, il che può spiegare l’alto tasso di alcolismo che si registrava soprattutto negli anni 70 e 80 del secolo scorso. Ma il peggio è passato e la Groenlandia è diventata un Paese nordico moderno, dove si contano più cellulari e computer che nel resto d’Europa. Sono tuttavia sempre più numerose le persone che vogliono riappropriarsi del loro patrimonio culturale scomparso. E lo fanno anzitutto mangiando carne di balena, foca, tricheco o renna».
Il buon livello di vita degli inuit è in parte garantito dalla Danimarca che finanzia la metà del budget di questa sua provincia fortemente autonoma, ma alla quale ancora impone il suo esercito, la sua moneta, e la sua politica estera. In cambio, il piccolo regno danese ne trae un grande prestigio geostrategico che altrimenti, con i suoi 5,7 milioni di abitanti, non avrebbe di certo. «E poi, i groenlandesi acquistano prodotti danesi, quindi i soldi versati da Copenaghen sono in realtà una sovvenzione alle proprie industrie», aggiunge l’antropologo. È anche vero che prima che la Danimarca si prendesse a carico questa grande isola, quando la caccia andava male interi gruppi di esquimesi morivano letteralmente di fame. Certo, l’era della foca si è per sempre conclusa molti decenni fa, eppure Heilmann ammette di averne già uccise 200 dall’inizio dell’anno. Questo cacciatore di pinnipedi è convinto che gli inuit siano stati vittime di un falso progresso, inadatto al loro genio. Ma è troppo tardi per tornare indietro. «Siamo in molti a volere l’indipendenza dalla Danimarca ma siamo abbastanza saggi per capire che non è ancora il momento di chiederla. Lo faremo quando avremo raggiunto uno sviluppo sufficiente a mantenere gli alti standard di vita ai quali ci hanno viziati i danesi. A quel punto, poco importerà se ad aiutarci saranno gli americani, i cinesi o i danesi».
Lo scorso luglio la calotta che ricopre l’ 84% dell’isola, in alcuni punti spessa più di tremila metri, s’è sciolta tre volte più in fretta del solito. Poche settimane dopo, la foto scattata da un climatologo danese con i suoi cani da slitta che corrono sull’acqua ha fatto il giro del mondo, anche perché le conseguenze del surriscaldamento riguardano l’intero pianeta. Infatti, solo l’estate scorsa lo scioglimento dei ghiacci groenlandesi ha provocato l’innalzamento degli oceani di un millimetro, e sull’isola c’è tanto ghiaccio da far salire il livello dei mari di 7 metri. Secondo il climatologo Jason Box del Geological survey of Denmark and Greenland, per via dell’inarrestabile aumento delle temperature, questa calotta glaciale è già condannata. «Possiamo solo chiederci quanto veloce sarà la sua scomparsa». Qui, intanto, il cambio climatico ha prodotto anche qualche piccolo effetto virtuoso. In un insediamento vicino a Nuuk, c’è una fattoria con una dozzina di vacche che brucano erba su praterie apparse solo recentemente, e nel sud dell’isola s’è cominciato a coltivare cavoli e patate. Per la prima volta, quest’anno sono perfino cresciute fragole groenlandesi.