Libero, 29 ottobre 2019
Su “Bianco” di Bret Easton Ellis
Quando uno scrittore si toglie dei sassi dalle scarpe, i sassi finiscono sempre sulla testa della società. Quanto più lo scrittore è bravo, tanto più la pioggia litica è salutare. Lo scrittore di cui stiamo dicendo appartiene a una generazione di poco precedente la mia, Millennial, ma per niente affine, e questo è un bene, perché si trova nella luce migliore per fotografare il contesto in cui vive, non troppo addosso alle abitudini del suo tempo da non vedere, non così lontano da sentirsi in dovere di tromboneggiare. È in questo punto anagrafico che si posiziona Bret Easton Ellis, classe 1964, gay atipico in un mondo di gay tipici, non abbastanza liberal da non odiarli, non abbastanza conservatore da credere che il tempo andato sia un’asse nell’oceano. Ed è questo anche il contesto di Bianco (Einaudi, 180 pp., 19 euro). Ellis ha unito astutamente memoir e saggio critico e il risultato è un manuale di sopravvivenza analitica per “Baby Boomers” fra i 50 e i 60 anni, oggi viventi (arrancando) nel mondo frenetico e umanicida dei Millennials.
DISTANZA GENERAZIONALE
La frizione fra Ellis e i Millennials viene dalle radici culturali delle rispettive adolescenze. Ellis ricorda come il mondo che lui ha vissuto negli anni Settanta non ruotasse attorno ai bambini come oggi. I genitori se ne prendevano cura, ma con alcune sacche di distrazione: «A cinque, sei o sette anni andavamo a scuola da soli (oggi i genitori vengono arrestati se permettono ai figli una cosa del genere) e facevamo giochi molto fisici incentrati su guerre e mostri e spie nelle strade del quartiere». La loro semisolitudine era dorata, erano costantemente in movimento, correvano in bici a casa di amici, nuotavano nel Pacifico, passavano pomeriggi alle sale giochi: la tv offriva tre canali, nessuno schermo vinceva, tranne quello del cinema. Il cinema ha popolato l’immaginazione di Ellis anche più dei libri: il piccolo Bret veleggiava verso l’adolescenza leggendo romanzi e fumetti horror ma soprattutto guardando film. Era un universo di fantasia, spiega lo scrittore, sanguinario e privo di consolazione, l’horror insegnava che gli adulti possono aiutarti solo fino a un certo punto, che «c’era un altro mondo, un mondo segreto dietro l’immaginaria e falsa sicurezza della quotidianità». A volte inciampava anche in storie semierotiche come La febbre del sabato sera o Shampoo e in riviste come Playboy. Tutto questo forse «ci ha rovinati; o forse, guardando la cosa da un’altra angolazione, ci ha resi più forti». Il tratto sociale della gioventù di Ellis è importante perché configura la ragione di tutte le storture che lo scrittore contesta all’oggi dominato dal “parental control”: i genitori non ricordavano ai figli quanto fossero speciali, le stragi nelle scuole erano rade ma il bullismo non preoccupava, i suicidi fra adolescenti erano inesistenti. Non c’era motivo per cercare una spiegazione a ogni cosa che capitava, così anche se «spesso desideravo che il mondo fosse un posto migliore, sapevo anche che non lo sarebbe mai diventato, consapevolezza che ha fatto sì che imparassi ad accettare».
NURSERY ETERNA
Oggi si cresce iperprotetti, ipercorretti e iperscandalizzati (ossessionati dall’identitarismo: per esempio, gli intelligenti “devono” considerare stupidi chi ha sostenuto Trump), ma per il naturale gioco dei contrari quest’orgia di sensibilità standardizzata impedisce la crescita e ci ha confinato in una nursery eterna, ha annientato la capacità di empatia e ha caricato a pallettoni le sacche di aggressività sociale. “Accettare”, appunto, è il verbo oggi più disimparato, soprattutto fra le comunità che vorrebbero “essere accettate” e fanno valere i loro diritti con le armi della diversità e della unicità, per prima quella LGBT, che «quando mette al bando la gente solo per come si esprime mette in moto un fascismo corporativo». Tutte le comunità soffrono di ossessione per la ipervisibilità, e i social network ne sono la panacea, perché coltivano le pulsioni narcisistiche mascherate con i vestiti del politicamente corretto: condanni o blocchi le persone che non la pensano come te, ti confini in un mondo utopico dove entrano solo i tuoi valori, diventi fieramente dispercettivo, ed «è per questo che tanti movimenti progressisti diventano rigidi e autoritari quanto le istituzioni cui si oppongono». Il tratto finale di questa tendenza, scrive Ellis, è la pretesa che l’arte segua questi stessi sentieri, cioè sia consolatoria e corretta, e che debba suscitare in tutti le stesse reazioni (pena l’ostracismo per chi dissente): la morale, meglio, il moralismo, ha sostituito l’estetica artistica. Invece, scrive Ellis, «ciò che volevo era essere disturbato dalle cose, essere scioccato. Volevo essere sconvolto e perfino ferito dall’arte». L’arte «mi strappò al narcisismo dell’infanzia proiettandomi tra i misteri del mondo». Oggi, è il commento sconfortante di Giuseppe Culicchia (che di Ellis è quasi un alter ego, oltre che il traduttore), il capolavoro American Psycho non lo pubblicherebbe nessuno, oppure, dato alle stampe, finirebbe male.