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 2019  ottobre 29 Martedì calendario

Intervista a Jaron Lanier

Il cinquantesimo compleanno di Internet? Quale? Internet ha avuto tanti inizi. Il 29 ottobre 1969 è stato uno di quelli e forse neanche il primo e certo neanche il più importante…». Il guru ha parlato. Ha le trecce rasta fino alle ginocchia, indossa una specie di saio color juta ad avvolgere un corpo monumentale che muove con un certo affanno, ai piedi due ciabatte da spiaggia con cui incontra capi di Stato e amministratori delegati di multinazionali che lo consultano come un oracolo per capire il futuro. Jaron Lanier, 59 anni, pioniere del web, inventore della realtà virtuale quando ancora neanche esisteva la parola, che infatti coniò lui; oggi ricercatore per Microsoft, impegnato da anni a cercare di capire come "aggiustare Internet": «Credo di sapere come rimediare al casino che abbiamo fatto. C’ero anche io quando è nata e si è sviluppata la rete, ho vissuto e creduto all’utopia del mondo migliore, pensavamo di costruire uno strumento che ci avrebbe reso automaticamente felici, mi spiace non aver gridato abbastanza forte quando mi sono accorto che stavamo andando nella direzione sbagliata. Viviamo in un capitalismo digitale che si fonda sulla manipolazione delle coscienze delle persone attraverso l’uso dei dati che forniamo spontaneamente per stare in rete».
Il web veniva raccontato come la terra promessa: nel 2009 il magazine "Wired" fece una storia di copertina che si intitolava "Il nuovo socialismo". Che cosa è andato storto?
«Aziende come Google e Facebook sono nate con una ambivalenza di fondo che non è mai stata affrontata onestamente: dicevano di voler costruire un mondo più aperto e democratico, ed erano guidate da imprenditori che dovevano fare profitti. L’unica soluzione è stata creare un mercato basato sulla profilazione degli utenti per rivendere quei dati agli inserzionisti pubblicitari. La pubblicità non è il male, è una forma di comunicazione. Ma la sorveglianza di massa e la modifica del comportamento delle persone che si possono ottenere quando hai i dati personali sono tutta un’altra storia».
A soffrirne è la democrazia: clicchiamo più facilmente su cose che generano rabbia o paura. Il populismo va a gonfie vele.
«Poteva andare diversamente? Sì, se avessimo avuto mezzo milione di anni in più per evolverci come specie umana. Il concetto di cooperazione fra le persone ha circa duemila anni.
L’idea che si possa vivere in pace con gli altri è molto recente, la nostra mente ancora funziona in base al pericolo imminente e all’aggressione. Quindi non è solo colpa delle tech companies se Internet non ci ha portato al socialismo, dipende anche dalla nostra pigrizia mentale. Ma così la specie umana non sopravviverà a lungo».
È un problema di regole? Servono nuove leggi?
«È difficile definire i confini della manipolazione in maniera efficace. Guardate cosa è accaduto con il

GDPR, le regole europee sulla privacy: una cosa giusta ma che risultati ha prodotto? Le grandi aziende riescono a rispettarle agevolmente perché gli utenti cliccano e accettano tutto senza capire bene cosa stanno facendo».
Se cambiare le regole non basta, che cosa dovremmo fare?
«Stabilire un principio per cui le aziende digitali devono pagare per avere i nostri dati personali.
Questo costituirebbe un disincentivo al mercato attuale dei dati per fini manipolativi.
Naturalmente comporta la fine della gratuità del web e dei social, ma sono convinto che non sia più vero che le persone non siano disposte a pagare per un servizio, lo dimostra Netflix».
Quindi le persone pagano per usare Facebook e Google che a loro volta pagano gli utenti per il numero di clic che fanno.
Funzionerà?
«Manca un tassello importante. I sindacati degli utenti. Servono sindacati in grado di negoziare il valore e quindi il prezzo dei dati personali che altrimenti rischia di diventare zero. In fondo gli utenti non sono utenti, ma lavoratori del capitalismo digitale, coloro che forniscono ai computer le materie prime per funzionare».
Ma in un mercato di questo tipo i ricchi potrebbero comprarsi la privacy e i poveri dovrebbero esporre tutto. Una ingiustizia.
«Una obiezione che mi fanno spesso. Potrei rispondere chiedendo a mia volta se qualcuno ha un’idea migliore per far finire la manipolazione di massa delle coscienze. No, evidentemente. E anche adesso, se nasci in una famiglia ricca, magari a San Francisco e New York, e conosci qualcuno a Google e in un fondo di venture capital hai molte più probabilità di avere successo di chi nasce in un quartiere povero di un Paese in via di sviluppo. La fine del capitalismo basato sulla manipolazione darà molte più opportunità a chi ha talento indipendentemente da dove nasce».
Questo ottimismo sorprende.
Nel 2000 Bill Joy su "Wired" scrisse che il futuro non avrebbe avuto bisogno di noi umani.
«Bill è un amico. La differenza con la mia visione di oggi è che l’intelligenza artificiale di cui tanto si parla è intelligente e funziona davvero solo se noi le forniamo dati da elaborare. Siamo noi esseri umani il motore del mondo futuro, la materia prima dei computer, è ora che ce ne rendiamo conto».
Sembra una nuova utopia, non si capisce come si potrebbe realizzare.
«Nessuno da solo è in grado di imporre questa rivoluzione, sono necessari cambiamenti su vari livelli. Il primo è quello degli ingegneri che lavorano nella Silicon Valley. Se capissero che la strada è questa…».
Finora sono stati parte del problema.
«Negli ultimi tre anni c’è stato un cambiamento netto, un risveglio della coscienza politica. Prima c’era la convinzione che tutto quello che stavano facendo fosse il bene assoluto, adesso quella cosa è morta e sepolta. C’è un nuovo attivismo, un coraggio che prima non c’era».
Gli ingegneri del software ci salveranno dal capitalismo digitale?
«Non da soli. Serve una combinazione di azioni: dai legislatori ai tecnologi, dai consumatori al sentimento popolare.
E poi ci sono i cambiamenti che saranno innescati da alcune importanti sfide legali in corso…».
Si riferisce all’antitrust? Che cosa ne pensa della proposta della candidata democratica alla Casa Bianca Elizabeth Warren di separare Facebook da Whatsapp e Instagram e Google da YouTube?
«L’antitrust può avere un senso ma non risolve il problema principale che abbiamo davanti, la manipolazione delle coscienze delle persone. Dobbiamo cambiare il modello di business se vogliamo cambiare Internet».
Facebook e Google faranno di tutto per impedirlo, lo sa.
«L’ironia in questa vicenda è che non ci rimette nessuno, in particolare Facebook potrebbe valere molto di più. Microsoft è molto cambiata in questi anni e vale più di prima. Anche Google e Facebook dovrebbero guardare al cambiamento senza paura. Del resto, ci dicono sempre che non dobbiamo temere il cambiamento: perché non danno l’esempio? Lo faranno, non possiamo restare a lungo in questo assurdo vicolo cieco».