La Lettura, 20 ottobre 2019
Sulla mostra "Valadier. Splendore nella Roma del Settecento" alla Galleria Borghese
«Fasto, magnificenza, ovunque nobiltà»: le parole di Caterina II di Russia, che pure di meraviglie ne possedeva a migliaia — scritte in una lettera del 1777 a un consigliere — evocano alla perfezione l’innamoramento di corti e casati del mondo intero per il genio di Luigi Valadier (1726-1785). L’orafo-ebanista-argentiere-scultore romano che dalla sua bottega in via del Babuino seppe inventare un linguaggio in grado (a colpi di migliaia di scudi) di conquistare il mondo: grazie a un rinnovato sguardo verso l’antico, all’abilità tecnica, alla lussuosa fantasia creatrice. E alla ricchezza dei materiali impiegati: oro, argento, bronzo, pietre dure, marmi di scavo...
Tanto entusiasmo, da parte della zarina, era dovuto al recente possesso di uno dei celebri Deser (termine romano che adattava il francese dessert) di mano di Luigi, un’opera ancora oggi considerata tra le più importanti al mondo per quanto concerne l’arte della tavola. Si tratta di una straordinaria creazione: un insieme di suppellettili e ornamenti che include fontane, templi, colonne, figure egizie in marmi colorati, metalli dorati e pietre dure conservati nel Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo: «Adesso sono mie, tutte insieme, e formano il più bell’ornamento del mondo…», si infiammava la volubile creatura che dominava su tutte le Russie. Ebbene: molti elementi saranno visibili dal 30 Ottobre alla Galleria Borghese di Roma per la mostra Valadier. Splendore nella Roma del Settecento, a cura di Anna Coliva, direttrice del museo.
Ma se il Deser di Russia — il primo proprietario, che lo vendette a Caterina, fu il ricco barone Jacques Laune Le Tonnelier de Breteuil, ambasciatore dell’Ordine di Malta a Roma, il quale possedeva anche l’esemplare poi acquistato da re Carlo IV di Spagna, oggi nel Palazzo Reale di Madrid — è un’opera che ci si aspetta in un’importante mostra su Valadier, quel che invece può stupire il visitatore dell’esposizione romana è la presenza, e il ritorno in città dopo secoli, dei grandi lampadari-candelabri in argento che un ancora giovane Luigi realizzò per la cattedrale di Santiago de Compostela nella bottega di San Luigi dei Francesi, prima del trasferimento in via del Babuino.
Le lampade — nello specifico una a olio e due candelabri sospesi — sono di norma collocate a molti metri d’altezza e da allora non hanno mai lasciato la Spagna. Nel 1764 i candelabri (il terzo esemplare era giunto in Galizia precedentemente), dopo essere stati esposti al pubblico nella bottega dell’artista, furono trasportati a Genova, imbarcati su una fregata dell’Armada Española fino a Cadice, per poi giungere con un vascello reale nel porto di Ferrol, sull’Atlantico. Caricati su carri speciali, arrivarono infine via terra nel santuario, suscitando — secondo le cronache del tempo — l’entusiasmo dei fedeli. Da allora non si sono più mossi. E per quanto singolare possa sembrare in tempi di alta tecnologia, modalità e tragitto per il temporaneo ritorno a Roma non sono stati poi così dissimili da quelli di due secoli e mezzo fa.
Le opere — peso di ciascuna delle tre dai 480 ai 680 chili, altezza massima oltre i 3 metri e mezzo — hanno infatti viaggiato smontate in 12 casse speciali, ideate dall’Istituto Superiore del Restauro, «appese» (non hanno base di appoggio), con un complicato trasporto in tre fasi: niente aereo, via terra con camion da Santiago a Barcellona, via mare con nave da Barcellona a Civitavecchia, di nuovo via camion da Civitavecchia a Roma. Per la prima volta gli argenti spagnoli sono dunque visibili (e allestiti per l’occasione quasi ad altezza d’uomo) fuori dalla loro collocazione originale, complice anche un recente restauro che ha riguardato l’intero santuario e che ha riportato alla brillantezza originaria i metalli preziosi: per questo anche le foto in circolazione fino a ieri erano, di fatto, irrilevanti.
Ma al di là dei singoli prestiti — tra cui i due bronzi che riproducono l’Antinoo capitolino e la Venere Callipigia appartenuti a Madame Du Barry, ultima favorita di re Luigi XV, ghigliottinata durante la Rivoluzione — la mostra ha un suo significato precipuo proprio per l’importanza che la committenza Borghese (come quella della famiglia Chigi) ebbe nella vita dell’artista. «Costituì il filo conduttore dell’attività di Valadier — spiega Anna Coliva — anche se il rango e il numero dei suoi committenti rivelano lo straordinario successo di una carriera che fece di Roma, forse per l’ultima volta, il centro del mondo artistico. Dalla bottega di via del Babuino, visitata da reali, diplomatici, collezionisti, antiquari, viaggiatori, si affermò un linguaggio che s’impose a livello internazionale».
Nel 1759 Luigi Valadier rilevò la bottega del padre Andrea, argentiere francese stabilitosi a Roma nel secondo decennio del secolo (i Valadier sono una dinastia, e il figlio di Luigi, Giuseppe, «inventerà» l’architettura della Piazza del Popolo). E risalgono a quello stesso anno i primi lavori eseguiti da Luigi per i Borghese: il rifacimento della cappella di famiglia di Santa Maria Maggiore e di quella del Santissimo Sacramento in Laterano. Fu solo l’avvio di un’intensa collaborazione che durerà per oltre 25 anni, fino alla morte dell’artista nel 1785.
La mostra offre dunque la possibilità di ammirare le opere del grande orafo all’interno di un contesto decorativo «di casa», quella Villa Borghese — oggi Galleria museo pubblico — che infatti tra i suoi raffinati apparati custodisce anche alcuni capolavori di Valadier: l’E rma di Bacco o la coppia di tavoli dodecagonali. Fu realizzato per la famiglia Borghese anche un sontuoso servizio in argento dorato, in gran parte perduto, ma i cui pezzi giunti fino a noi sono stati riuniti per quest’occasione. Alle collezioni della Galleria, conservate nei depositi e ora esposte in mostra, appartengono inoltre alcune cornici con applicazione di bronzetti antichi e moderni, per la prima volta attribuite con certezza all’estro valadieriano, su rinnovata base documentaria, da parte di Marina Minozzi.
Non un dettaglio, la curatrice ha voluto dedicare la mostra ad Alvar González-Palacios, lo studioso di origini cubane, classe 1936, in Italia da oltre mezzo secolo, tra le massime autorità mondiali in tema di storia del mobile e delle arti applicate e decorative dei grands siècles.
Lo stesso González-Palacios, ripetutamente citato in catalogo, a Luigi ha dedicato anche la sua più recente monografia (edita in occasione dell’esposizione alla Frick Collection di New York nel 2018) ed è autore di scoperte fondamentali su Valadier: dal Deser di Madrid al ritrovamento della nota di conto del 1773 proprio sui legami tra Luigi e Marcantonio IV Borghese. Infine, tra gli esemplari in grado di evocare il gusto di un’epoca — quella del grand tour, dell’amore per l’antico, dei fasti delle ultime corti Ancien Régime — da Capodimonte arriva la ricostruzione in scala del tempio di Iside a Pompei, porzione del prezioso centrotavola che Valadier, in collaborazione con Carlo Albacini, realizzò per Maria Carolina d’Austria, regina di Napoli e sorella di Maria Antonietta.