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 2019  maggio 26 Domenica calendario

Su "L’albatro" di Simona Lo Iacono (Neri Pozza)

Il primo giugno 1957 Giuseppe Tomasi di Lampedusa è ricoverato in una clinica romana per combattere un carcinoma al polmone. La moglie, Alexandra «Licy» Wolff, psicanalista, gli ha regalato un quaderno in pelle blu e una stilografica per raccontare del suo «tempo felice» e alleviare la noia di quelle lunghe giornate. Così, mentre attende risposta da un editore per il manoscritto del Gattopardo, lo scrittore inizia a ripercorrere la sua infanzia. Comincia da qui il nuovo romanzo della siracusana Simona Lo Iacono, L’albatro (Neri Pozza), insieme autobiografia romanzata, educazione sentimentale, affresco del mondo dell’aristocrazia siciliana ormai al tramonto, rievocazione magica e poeticissima dell’infanzia, storia della genesi di un capolavoro e celebrazione del potere della parola, indispensabile a «esistere, ancora prima che a rivelare».

Documenti alla mano — epistolari, volumi illustrati, biografie — la scrittrice innesta sulla vicenda biografica e artistica di Giuseppe Tomasi due temi a lei cari, la storia della Sicilia e l’infanzia, squarciando sul presente lunghi affondi nel passato. Il giovane principuzzu Giuseppe vive nelle «trecento stanze» del palazzo palermitano di via Lampedusa, dove è nato il 23 dicembre 1896, fra i rituali dell’alta aristocrazia siciliana, sotto lo sguardo vigile del fedelissimo servitore Don Nofrio. La madre, Beatrice Tasca dei Cutò, donna di straordinaria apertura mentale, si occupa della sua istruzione, il padre, «uno degli ultimi principi di Sicilia», è tutto preso dall’apprensione per il patrimonio di famiglia che si va sgretolando. Intorno a loro, un nugolo di parenti, zii e cugini, anch’essi appartenenti alla nobiltà d’antico lignaggio.

All’improvviso nella vita di Giuseppe compare il coetaneo Antonno, che si esprime al contrario, veste abiti trasandati, non indossa quasi mai le scarpe e con un coltellino a serramanico intaglia da pezzi di legno stupefacenti statuine. Antonno è umile, ma conosce tutto della bellezza delle parole, sa che la ricchezza è povertà, la realtà illusione, la morte una nuova vita e promette a Giuseppe di non lasciarlo mai, come l’albatro con il capitano della nave, con tempu bonu o tempu tintu.

Intanto anche in quell’estate del 1903 i Tomasi si trasferiscono nel feudo di donna Beatrice, a Santa Margherita di Belice. E mentre «un’intera comunità» si riversa nel palazzo materno, molte cose cambiano per Giuseppe: i primi turbamenti, scatenati dall’affascinante attrice di una delle tante compagnie girovaghe sempre ben accette nelle terre dei Cutò, la scoperta dei dissapori e delle ipocrisie del mondo degli adulti, la rivelazione della magia del teatro e una lunga inappetenza segnano l’abbandono dell’infanzia, mentre Antonno a sua volta smagrisce a vista d’occhio. Il tempo corre, e con lui il romanzo: per Giuseppe arrivano il terremoto di Messina (che si porta via un’amatissima sorella della madre) e il liceo, le guerra e il matrimonio, celebrato lontano da casa con grande disappunto di donna Beatrice, la distruzione del palazzo di famiglia nel secondo conflitto mondiale e la casa dei cugini a Capo d’Orlando, dove nasce il personaggio del principe di Salina, la passione per la letteratura e la scrittura, capaci di mettere «insieme il vuoto e il pieno, ciò che si tace e ciò che si dice», e l’adozione tardiva ma gioiosa di un figlio già adulto, la stesura di un romanzo il cui protagonista si fonde per osmosi con il suo autore.

E passano anche le giornate nella clinica romana, dove la voce di Antonno torna a farsi sentire, per accompagnare il principuzzo al passaggio più doloroso. L’epilogo è anche cronaca letteraria: dopo due rifiuti, il dattiloscritto anonimo del Gattopardo, grazie ad Elena Croce, figlia di Benedetto, giunge nelle mani di Giorgio Bassani. L’11 novembre 1958 il romanzo esce con una tiratura di 3 mila copie, salite a 70 mila quando, il 7 luglio 1959, il Gattopardo vince il Premio Strega. Giuseppe Tomasi se ne è andato un anno prima, sempre a luglio, come il suo principe Fabrizio. Ma, diceva Antonno, quando una cosa finisce sta solo per cominciare.