il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2019
Biografia di Pietro Figlioli (giocatore di pallanuoto)
A ben osservare Pietro Figlioli, capitano della nazionale di pallanuoto italiana, mentre insieme ai compagni di squadra scivola in acqua e si muove come fosse nel suo habitat naturale o afferra il pallone con la mano e carica il braccio muscoloso per scagliarlo contro la rete e fare gol, a ben vederlo quindi mentre tira su la coppa dei passati Campionati del mondo di nuoto 2019 a Gwangju (Corea) con al collo la medaglia d’oro, o quando con il corpo scultoreo e ancora bagnato alza le braccia al cielo in segno di vittoria a bordo piscina, viene da pensare immediatamente all’antico mito di Oannes, la creatura per metà uomo e per metà pesce.
Secondo quanto scrive Berosso (storico attivo sotto il regno di Alessandro Magno) nel suo Storia di Babilonia, Oannes emerse intorno agli anni 3.000 o 4.000 a.C. dal Mar Eritreo – da lui, deriveranno poi com’è evidente le sirene e i tritoni della cultura nordica o il Colapesce dei cunti di Giuseppe Pitré –, ed è grazie a lui se “gli uomini furono in grado di esercitare le arti, coltivare i campi, innalzare templi, edificare città, istituire leggi,” precisa lo storico.
E il Mar Eritreo, oggi Oceano Indiano, lambisce anche la patria sportiva di Figlioli, l’Australia, sebbene Pietro sia in realtà un melting pot di culture. Nato in Brasile a Rio de Janeiro da genitori di discendenza italiana – la mamma Marta di Comacchio e la famiglia del padre (il nuotatore e campione brasiliano José Sylvio) di Pescara –, si trasferisce da ragazzo nello Stato australiano del Queensland. Lo si nota anche dall’accento esotico che infonde al suo perfetto italiano, ora dalle vocali arrotondate e musicali del portoghese ora dalle sillabe finali tronche dell’inglese–americano. “In Australia,” racconta in una pausa dagli allenamenti, “ho praticato molti sport a scuola: calcio, basket, pallavolo. Poi a 13 anni ho scoperto la pallanuoto e me ne sono innamorato.”
Il talento esplode subito e inizia a far parte delle selezione nazionale australiana con cui partecipa a due Olimpiadi e tre Mondiali, poi però dal 2004 inizia a giocare in Italia e dal 2009 decide di militare nella nazionale azzurra. E Pietro, l’Italia, l’ha proprio scelta per amore: “Ero come destinato all’Italia, di cui avevo i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Non è un caso che sia io sia mia sorella (Carla, ndr) abbiamo nomi italiani. Qui mi sono innamorato di mia moglie Laura, qui sono nati i miei figli Lorenzo e Matteo, qui vedo il mio futuro”. Non si fa in tempo, infatti, a parlare dell’argento olimpico guadagnato dal Settebello (così è chiamata la nazionale maschile azzurra) a Londra 2012 o della medaglia di bronzo a Rio nel 2016, e quasi si sorvolano i due ori mondiali a Shangai nel 2011 e a Gwangju nel 2019, che Pietro inizia a parlare del suo ménage come papà: “Al mattino mi alzo verso le sette, mi piace svegliare i miei figli, preparare loro la colazione e stare tutti insieme a tavola. Approfitto delle ore mattutine perché loro vanno a letto alle 21,30 e con gli allenamenti non sempre riesco a dare loro il bacio della buonanotte. Voglio godermeli più che posso con passeggiate, giri in bicicletta o in vacanza, adesso che sono piccoli, perché poi so che andranno via”.
Non stupisce, allora, che questo gigante buono che mangia tantissimo – “patatine fritte, cioccolata, di tutto, ma con moderazione,” precisa – sia una guida per la squadra azzurra verso le Olimpiadi di Tokyo 2020: “La prima Olimpiade è pazzesca, la seconda anche ma la sai gestire. Più vai avanti con gli anni, più impari a governare l’adrenalina che può far sciupare la prestazione. Tokyo sarà la mia quinta rassegna, ho la testa quadrata e ben chiari gli obiettivi miei e della squadra perché il settebello non sono solo i sette in piscina, siamo tutti e tredici, siamo sempre tutti in campo come una famiglia”. Dolce e paterno con i compagni, Pietro – che ascolta rock alternativo, gruppi indie, l’hip-hop e immancabilmente la musica brasiliana, su tutti Gilberto Gil – sa essere feroce contro l’avversario: “Io non mollo mai fino al fischio finale, e spingo sempre al massimo per mettere all’avversario più pressione di quella che sto vivendo io. Essere capitano significa anche essere un esempio per gli altri.”
Bello, il sorriso largo e l’allegria carioca, adesso deve riprendere gli allenamenti in piscina. In acqua sguscia così lesto che dalle gambe lunghe e ben tornite sembrano spuntare delle pinne, nuota e guizza nel suo elemento come una creatura per metà uomo e metà pesce, proprio come il buon Oannes.