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 2019  ottobre 28 Lunedì calendario

Nel mondo ci sono 170 muri

Elegia di un muro molto alto. Versi potenti di Mustapha Benfodil. Cinquantenne poeta, drammaturgo, scrittore. È andato in Palestina. Ha visto. Ha sofferto. Ha metabolizzato rabbia. Indignazione. Tristezza. “Il cemento è una lingua barbara/Il muro è un paese irrazionale”. Aveva vent’anni quando il Muro di Berlino venne fatto a pezzi il 9 novembre del 1989. Fu una lunga, epocale, felice, drammatica notte. Mustapha, nato in Algeria, condivise l’euforia e le speranze di tutti noi?
“Il muro e le lacrime e l’urina e lo sperma e il sangue e il tempo e la morva/e la merda e l’orgoglio e il sangue e il muro e le lacrime e l’urina e lo sperma …”. Il canto di Benfodil è una parete di parole dolorose, un sipario di vite spezzate, di popoli divisi, di odio, di paura. All’ombra del muro che divide Israele da Gaza. Da Gerusalemme. Una infinita palizzata dello spirito.
“Il muro è la lingua materna dei falchi/(o dei coglioni?)”, incalza Benfodil. I muri sono come buchi neri. Più forti della memoria. Più atroci dell’esilio. Alfabeto del potere, simbolo di forza e autorità. Bastione di sovranismi. Testimonianza di impotenza e di dialoghi impossibili. Ingenuamente abbiamo creduto, quella notte di gioia e liberazione, che dopo il crollo del Muro di Berlino, altri ne sarebbero caduti, come in una sorta di gioco del domino. Lo promettevano i leader del mondo cosiddetto libero. Gorbaciov. Il Papa. La caduta del Muro rappresentava, coi suoi ruderi, la rovina di un conflitto tanto ideologico quanto geopolitico. Era un muro “cattivo”. Emblema della Guerra Fredda. Del Male Comunista. L’Occidente fu seppellito da un delirio di roboanti ed ottimistiche promesse. Non ci saranno più muri!
Tutte balle. Da allora i Muri si sono moltiplicati. Erano sedici, trent’anni fa. Oggi sono dieci volte di più. Centosettanta, secondo il calcolo di Antonio Polito (Il muro che cadde due volte, ed. Solforino, 2019). Muri in cemento. In acciaio. In fili spinati elettrificati. Muri cibernetici. Barriere invalicabili. Migliaia e migliaia di chilometri. Tra il 1990 e il 2001, sono stati realizzati 6 muri “di sicurezza” contro il pericolo potenziale dei terroristi: Israele/Gaza, Kuwait/Iraq, India/Bangladesh, Uzbekistan/Afganistan, Uzbekistan/Kirghizistan, Turkmenistan/Uzbekistan. Nello stesso periodo gli Stati Uniti hanno cominciato a mettere in piedi il loro muro anti-immigrazione (lungo 4.300 km, di cui mille in ferro), imitati dalla Spagna che ha isolato Ceuta e Melilla, le due enclave che possiede in Marocco. Dopo l’11 settembre, la febbre murale ha contagiato altre nazioni che hanno edificato 15 nuovi muri e barriere per contrastare i terroristi islamici. L’Arabia Saudita, per esempio, ha parzialmente isolato il suo territorio dall’Iraq, gli Emirati, l’Oman, il Qatar, la Giordania e lo Yemen con 885 chilometri di muri e barriere elettroniche. Nel 2003 lo ha fatto persino il Botswana, una barriera elettrificata lungo la sua frontiera con lo Zimbabwe. L’India ha raddoppiato le strutture anti-invasione nel confine con il Bangladesh.
E in Europa? La lezione del Muro di Berlino non ha avuto allievi. È stata bigiata. Le guerre balcaniche. I nuovi nazionalismi. La crisi dei migranti. Tutto ciò ha indotto parecchie nazioni a trincerarsi. Contro gli “altri”. Contro l’Isis. Contro Mosca: la diffidenza verso la Russia di Putin ha costretto i piccoli paesi baltici a misure onerose per blindare i loro confini. Persino svedesi, norvegesi e finlandesi si attrezzano. L’Europa senza frontiere si è trasformata nell’Europa dei Muri.
Ecco le barriere tra Macedonia e Grecia che insieme alla Bulgaria ha fortificato i confini con la Turchia di Erdogan. L’Ungheria sovranista di Orban ha messo al bando i migranti con una barriera di 175 chilometri lungo il confine con la Serbia e un’altra di 350 chilometri con la Croazia. Idem la Slovacchia che cingerà i confini con Croazia, Slovenia ed Austria. I Balcani, insomma, sono diventati un labirinto di reticoli, muri e barriere, a loro volta collegati con centrali che raccolgono e archiviano video e dati Id. In questo Grande Gioco della sorveglianza e della repressione, in nome della “giusta guerra” al terrorismo e della politica dei respingimenti, si è affacciata Brexit. Londra, infatti, ha finanziato una barriera alta quattro metri attorno al porto di Calais, in Francia, per stoppare l’afflusso di rifugiati e migranti diretti in Inghilterra. Una panacea: i migranti arrivano per altre vie. Anche da morti. L’ultima strage, i 39 cadaveri di cinesi scoperti dentro un Tir nell’Essex, in Inghilterra.
In questo mondo sbarrato l’Europa è sempre più incattivita, xenofoba. Resa crudele dai conflitti regionali e dalla dispute territoriali. In un tripudio di preoccupazioni nazionaliste e slanci patriottici, gli estoni progettano con Lettonia e Lituania confini che tengano alla larga i russi, i quali godono di una enclave strategica, quella di Kaliningrad. Tra rampe di missili, spie satellitari, droni occhiuti e terre di nessuno trasformate in trappole letali, i valori del Vecchio Continente fanno i conti con la realpolitik: la Lettonia si premunisce contro la Bielorussia che considera fedele alleata di Mosca, dunque potenziale nemica. La Polonia, più guardinga, teme l’Ucraina, la quale, a sua volta, deve badare all’invadente Russia che si è pappata la Crimea. Un ritorno al passato che ci è costato due Guerre Mondiali. L’Europa conta quaranta “piccole patrie”. Ed altrettante rivendicazioni. Le identità territoriali cozzano con il mondo connesso, e il vento che attraversava le nostre anime di cittadini del mondo si è fatto più fievole.
Celebreremo, com’è giusto, la caduta del muro più celebre, dopo il vallo di Adriano e l’ incredibile Muraglia Cinese. Un muro (per fortuna) tra i più fugaci. Quello che divide in due Cipro è in piedi dal 1974. Da 45 anni. I caschi blu dell’Onu lo sorvegliano, senza illusioni. Chi ha criticato “il Muro della vergogna” di Berlino (oggi la visita guidata ai resti del Muro costa 16 Euro…), ne ha messo in piedi uno ben più inquietante col Messico. Giustificato per impedire immigrazioni selvagge e limitare il traffico di droga (ma ciò non avviene…). In realtà, costruire i muri è un business colossale. Secondo Victoria Vernon, docente all’università di New York, e Klaus Zimmermann del Global Labor Organization (Walls and Fences: A Journey Through History and Economics, marzo 2019) vale miliardi di dollari. La militarizzazione ultra tecnologica delle frontiere è un formidabile volano di profitti. Per esempio, tra il 2002 e il 2017, l’export delle compagnie israeliane specializzate in high-tech security dei confini ha registrato il 22 per cento d’incremento. Il paradosso è che il muro di Trump porterà benefici pure ad aziende messicane, come la Cemex. O che, per effettuare i lavori necessari, vengono assunti centinaia di lavoratori clandestini. Succede così che a tirar su il muro tra Messico e Stati Uniti siano soprattutto operai messicani pagati una miseria. L’altra faccia della medaglia è che i muri hanno costi pesantissimi, non solo legati alla loro elaborata edificazione: isolamento commerciale delle zone di confine; rottura dei legami interculturali; terreni agricoli sacrificati; scombussolamenti ecologici di flora e fauna.
E tuttavia, concludono Vernon e Zimmermann, “come gli antichi valli, i moderni muri parzialmente riescono a raggiungere i loro obiettivi”: nessuna barriera fisica può impedire una effettiva protezione contro il terrorismo e gli armamenti più evoluti. Nessuna fortificazione può impedire ai migranti di raggiungere la terra usando barche o aerei. Nessun muro può ridurre il traffico di stupefacenti o l’ingresso illegale dei clandestini. Gli svizzeri, per esempio, utilizzano nel Canton Ticino droni specializzati nell’individuare chi entra illegalmente, usando infrarossi. Ma il flusso dall’Italia continua lo stesso. Tempo fa, Janet Napolitano, segretaria di Stato americano per la Sicurezza Interna, dichiarava rassegnata: “Costruite pure muri alti anche 15 metri. Vedremo prima o poi apparire scale alte 16 metri…”.
In verità, i muri funzionano all’inizio. Quello di Berlino ha quasi azzerato la fuga dei tedeschi dell’Est verso l’Ovest, rallentando la penetrazione dei valori occidentali nella sorvegliata società della Germania di Pankow. A lungo termine, secondo gli analisti, perdono efficacia. Come osserva Frederyk Taylor, autore di The Berlin Wall. A World Divide, 1961-1989 (2006): “Potete pure arrestare i popoli; potete pure imporre dei limiti, ma essi troveranno comunque altre strade…I muri mostrano che i politici arrivati alla fine delle loro idee per trattare una situazione difficile coi loro vicini e non possono pensare ad altri mezzi”. I muri sono storicamente condannati, simbolizzato la chiusura contro l’apertura, l’immobilismo contro il movimento, la morte contro la vita. I muri vacillano. Invitano a scovare il modo di superarli. Di aggirarli. Di scoprirne i punti deboli.
Lo sanno bene gli egiziani che hanno scoperto parecchi tunnel sotto il muro che divide la Striscia di Gaza dal Sinai: nel marzo del 2007 i palestinesi hanno organizzato un’azione di massa distruggendo, in parte, il muro. E i nordcoreani? Hanno scavato gallerie imponenti sotto una delle frontiere più militarizzate della Terra, per far passare reggimenti corazzati. In Irlanda del Nord, a Belfast, l’hanno chiamato Muro della Pace. Tornata di nuovo assai fragile. Chi innalza muri non sa che rafforza la trasgressione. E la resistenza.