il Giornale, 28 ottobre 2019
Addio medico di famiglia
«Il dottore è andato in pensione, la Regione ha deciso di non nominare un sostituto e l’ambulatorio è destinato a chiudere». Sempre più spesso è questo il messaggio registrato sulla segreteria telefonica di medici di base e pediatri che hanno raggiunto l’età del pensionamento. Sempre più spesso chi se ne va non viene sostituito, lasciando i pazienti con un palmo di naso. Per gli assistiti inizia a questo punto un’odissea. Obiettivo: trovare un medico o un pediatria di famiglia che, come si dice, «abbia ancora posto»; non è raro il caso che se ne debbano consultare almeno quattro o cinque per trovarne uno disponibile.
Per fare fronte alle necessità, e spalmare i pazienti rimasti «orfani» sugli altri ambulatori, è stata ampliata la quota massima di assistiti consentita dalla legge. I medici di base sono passati da 1.500 a 2.000, con il risultato che in un mese si trovano ad affrontare almeno 6/700 pazienti, e i pediatri hanno quasi raddoppiato il numero di bimbi, passando da 800 a 1.400. Una delle situazioni più critiche si registra in Lombardia: nel 2017 si contavano 373,1 medici ogni 100mila residenti, il secondo risultato peggiore dopo il Piemonte (365,4) contro i 487 su 100mila abitanti in Sardegna (regione che ne conta la percentuale più alta) e i 461,6 del Lazio. Solo nella città di Milano mancano 106 medici e altri 140 nel distretto della Città metropolitana.
Dietro la progressiva estinzione dei medici di base c’è l’assenza di programmazione che riguarda in generale i camici bianchi. Ma c’è anche qualche cosa di più: una nuova concezione del loro ruolo. E il disegno, più o meno esplicito, di un loro affiancamento/sostituzione con più impersonali poliambulatori associati.
Quanto ai numeri in calo, secondo tutti gli analisti, il problema del recupero del turnover della classe medica avrebbe dovuto essere affrontato una decina di anni fa. Purtroppo non lo si è fatto. Così i medici italiani risultano tra i più «vecchi» d’Europa con il 54% che ha dai 55 anni in su. Per età siamo al ventesimo posto in Europa, lontanissimi dal primato di Malta, dove oltre il 43% dei camici bianchi ha meno di 35 anni.
Il problema è, drammaticamente, all’ordine del giorno. «Dal 2018 al 2024 stiamo assistendo al fenomeno dei pensionamenti di massa – spiega Carlo Rossi, presidente di Snami Lombardia, il sindacato nazionale autonomo dei medici e presidente dell’Ordine di Milano -. Il picco si raggiungerà tra un paio di anni. Peccato che parallelamente non siano state programmate in tempo le nuove immatricolazioni di medicina».
SENZA SOLDI
A orientare la non scelta, oltre che la semplice sciatteria, sono stati motivi economici: più posti a medicina significa prima più fondi per le cattedre, e poi più fondi per i concorsi. L’Italia è il Paese che in Europa investe meno in spesa sanitaria (si parla di solo il 7% del Pil), come Grecia, Spagna, Portogallo, contro il 12% della Svizzera, la nazione che investe di più, l’11 per esempio di Francia e Germania.
«Fino ad almeno una decina di anni fa – spiega Rossi – si poteva parlare di un boom: l’accesso a medicina è stato aperto a tutte le scuole secondarie, il medico era una professione che aveva ancora prestigio sociale. Così, se all’inizio la mancata programmazione delle nuove immatricolazioni è stata lasciata più che altro al pressappochismo dei vari politici che si succedevano nell’incarico di ministro della Sanità, poi le cose sono cambiate e sottendono un preciso disegno». Dal 1998, dice Rossi, hanno fatto la loro comparsa nelle contrattazioni sindacali i fondi sanitari, come forma di welfare aziendale. Tra i primi il fondo Metasalute per i lavoratori metalmeccanici, ricco soprattutto per l’ampio numero di «contribuenti», tanto da potersi permettere di coprire le spese odontoiatriche, benefit che poche altre assicurazioni riescono a dare.
Nel 2016 sono state emanate le limitazioni prescrittive applicate agli accertamenti diagnostici, con il cosiddetto «Decreto Appropriatezza» del Ministro della Salute Beatrice Lorenzin che «individua le condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale del Servizio sanitario nazionale». Poi è arrivato il Decreto sui cosiddetti Lea, che ha confermato in parte i contenuti del «Decreto Appropriatezza». I Lea sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario è tenuto a fornire ai cittadini.
Una serie di novità che portano Rossi a una conclusione: «Tutto sembra spingere verso una privatizzazione del Sistema sanitario nazionale».
In questo contesto si situa il problema del nuovo ruolo dei dottori di base. Secondo le stime della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici tra dieci anni chiuderanno gli ambulatori 33mila medici di famiglia, che saranno sostituiti da solo 11mila new entry. A farne le spese 14 milioni di italiani che si troveranno senza medico con un’assistenza sanitaria insufficiente. Le previsioni della Fondazione italiana medici di famiglia (in sigla è Fimmg) si fermano ai prossimi 5 anni, periodo in cui andranno in pensione più di 14mila camici bianchi. Il picco si registrerà nel 2022, con l’uscita di 3500 medici. Il trend negativo potrebbe continuare negli anni successivi e in assenza di politiche di assunzione mirate raggiungere la cifra di 29mila nel 2029.
TUTTI IN GRUPPO
Di fronte a questo trend minaccioso, Regioni come la Lombardia (ma non solo) spingono verso la medicina di gruppo. L’invito ai medici è quello di mettersi insieme per aprire poliambulatori aperti dalle 8 alle 20. L’incentivo? Un contributo mensile per pagare a ore una segretaria e un infermiere, figure fondamentali per l’organizzazione dell’ambulatorio. Il contributo va ad alzare la base contributiva del medico che lo percepisce, non costituendo ovviamente un’entrata per il dottore, che riesce a malapena a pagare i due collaboratori. Così sono previste incentivazioni aggiuntive, da parte della Regione, per esempio, se l’ambulatorio rimane aperto il venerdì sera o il sabato mattina. In questa maniera si arriva a coprire con la continuità assistenziale le 24 ore, visto che dalle 20 alle 8 del giorno successivo entra in servizio la guardia medica.
Il primo obiettivo è quello di sopperire alla mancanza dei medici di base, sollevando allo stesso tempo il pronto soccorso dal peso dei pazienti in codice bianco.
Il passo successivo è quello della medicina di gruppo, ovvero poliambulatori strutturati e gestiti dalle Ats, Ausl o Assl, che rappresentano però la fine del rapporto personale di fiducia che sottende la relazione tra paziente e dottore. Nell’ambulatorio, infatti, su modello anglosassone, il paziente viene ricevuto dal primo medico disponibile. «Il modello del singolo medico di base è antiquato, non riesce ad assicurare assistenza, non fornisce continuità assistenziale, non ha strumentazione tecnologica -, spiega Giovanni Fattore, docente del dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Area Public Management & Policy della Sda Bocconi -. Il poliambulatorio agevola l’aggiornamento dei camici bianchi e garantisce qualità più elevata, quindi di per sé offre dei vantaggi. Ma la vera emergenza rimane la carenza di medici, che porterà al frantumarsi dell’intero sistema. Non sostituire chi va in pensione è un errore macroscopico: con i suoi difetti il medico di famiglia, grazie al ruolo di coordinamento tra i diversi specialisti che ruotano intorno a un paziente, di rassicurazione degli assistiti, evita il sovraffollamento dei pronto soccorso e svolge anche un’importante funzione di educazione sanitaria di base. È il cardine del sistema sanitario nazionale».