la Repubblica, 28 ottobre 2019
Quarant’anni fa la morte di Paparelli
C’è un video che circola nel web da qualche mese: un bambino si affaccia per la prima volta nello stadio dell’Everton, a pochi minuti dall’inizio della partita di Premier League. Non c’è niente di più antico di quegli occhi che si accendono, di quel sorriso che si spalanca estasiato alla vista del campo verde smeraldo e delle tribune affollate di persone vestite di blu, come la maglia che indossa il bimbo. È la meravigliosa scoperta del calcio. La prima volta allo stadio con il papà o con lo zio, la nascita dell’amore più sofferto e irrazionale. Anzi, a dire il vero proprio nella “prima volta” c’è l’unico atto razionale, perché ogni padre sceglie una partita “facile” per l’iniziazione del figlio, una di quelle dal pronostico quasi scontato che riduce al minimo il rischio di una delusione indelebile.
Ecco, per la nostra generazione, quella dei baby boomers che a Roma negli anni Settanta frequentavano il vecchio Stadio Olimpico, senza copertura, tutto travertino e seggiolini di legno, la favola del calcio, la sua innocenza sono finite il 28 ottobre 1979 con la morte di Vincenzo Paparelli un’ora prima del derby. Per chi tifa Lazio, in realtà, una prima avvisaglia c’era stata due anni prima quando, mentre una sera di gennaio cenavamo davanti al televisore, pensando più che altro alla scuola del giorno dopo, vedemmo apparire la foto di Luciano Re Cecconi all’inizio del telegiornale. Un’immagine incongrua, un’intrusione dove di solito guardavamo distrattamente facce di politici o di terroristi. Re Cecconi era morto in una gioielleria scambiato per un rapinatore, raccontavano le cronache. E noi in quel momento iniziavamo a diventare adulti. Il 28 ottobre 1979, poi, l’addio definitivo alle figurine, alle interminabili partitelle in cortile o nel corridoio di casa, al Subbuteo, l’attesa spasmodica dei Mondiali, Tutto il calcio minuto per minuto, il secondo tempo di una partita di campionato la domenica sera alla tv, qualche match di Coppa dei Campioni se le italiane andavano abbastanza avanti. Un mondo in bianco e nero, che si colorava magicamente la domenica pomeriggio allo stadio. Molti di noi non se ne erano ancora accorti, ma quei colori già stavano sbiadendo nella nebbia degli anni di piombo. Durante il 1979, per dire, il terrorismo aveva fatto più di venti vittime, compreso l’omicidio dell’operaio Guido Rossa per mano delle Br. A Roma quasi ogni sabato la città tirava giù le saracinesche e si svuotava per lasciare spazio alle manifestazioni. Giovani contro giovani, pietre e pistole. L’Olimpico, però, quella domenica pomeriggio di fine ottobre era ancora terra di confine. C’erano, è vero, gli ultrà delle due curve che si lanciavano insulti, che li scrivevano con la vernice sulle lastre di travertino dello stadio. Ma c’erano anche le famiglie che si erano portate i panini e pranzavano lì, perché in quegli anni i seggiolini numerati c’erano solo nella tribuna Monte Mario e nella Tevere e per assicurarsi un posto bisognava andare allo stadio qualche ora prima della partita. Vincenzo Paparelli aveva lasciato a casa il figlio Gabriele di nove anni, solo perché temeva qualche scazzottata e insieme alla moglie, Wanda, aveva scelto di sedersi vicino a una delle uscite della Curva Nord per andarsene più velocemente in caso di tensioni da derby. Non poteva immaginare che proprio quel giorno la sua vita sarebbe finita, insieme all’innocenza del calcio italiano, stroncate dal razzo sparato dalla Curva Sud. Una giornata di infinite sliding doors : la pioggia del mattino che lascia il posto a un po’ di sole cambiando i programmi dei coniugi Paparelli (dovevano partecipare al pranzo di famiglia proprio perché pioveva); l’abbonamento alla curva che in realtà era del fratello di Vincenzo; il cambio di posto allo stadio perché più in basso il legno dei seggiolini era ancora bagnato; e chissà quanti altri dettagli che hanno implacabilmente portato Vincenzo all’appuntamento con il razzo sparato da Giovanni Fiorillo, figlio di un meccanico come meccanico era Paparelli, e che morirà nel 1993 a 33 anni, la stessa età di Vincenzo. «Accasciata su una panca nel minuscolo ingresso dell’Ospedale Santo Spirito – ricorda Fabrizio Bocca che, giovane cronista, fu inviato lì dopo la tragedia – la donna se ne stava, minuta, ora in lacrime disperata, ora silenziosa, ciondolando però la testa e ogni tanto stringendosela tra le mani. Come se volesse strapparsi a quel mondo esterno terribile, atroce». Intanto all’Olimpico il derby si giocava lo stesso per prevenire altri incidenti. Anni dopo si sarebbe fatta la stessa, ipocrita scelta all’Heysel di Juventus-Liverpool, o quella opposta (altrettanto ipocrita) del derby di Roma del 2004. Passaggi del lungo tramonto del calcio innocente che, ormai, riesci a intravedere solo negli occhi di quel bambino dell’Everton. Negli occhi dei nostri bimbi che ancora portiamo, mano nella mano, dentro la favola del calcio, nonostante insulti, razzismo e braccia tese. Ma che meritano tutta un’altra storia. La stessa che Gabriele Paparelli immagina per la piccola Giulia, tifosissima della Lazio, alla quale un giorno dovrà spiegare perché in Curva Nord ogni domenica sventola una bandiera con il viso del nonno. E perché lui, da sempre, si porta dietro una bomboletta di vernice per cancellare dai muri di Roma le offese a Vincenzo Paparelli.