Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  ottobre 28 Lunedì calendario

I dati su occupazione e Pil

Il 31 ottobre l’Istat diffonderà la stima preliminare del Pil al terzo trimestre e i dati sull’occupazione del mese di settembre. Nessuno si aspetta grosse sorprese, ma è l’occasione buona per sfatare due mistificazioni che hanno fuorviato il dibattito sulla situazione economica e sociale del Paese. Le distorsioni possono essere inconsapevoli, prodotte in buona fede. Con il risultato di accrescere lo smarrimento dei cittadini, costretti a districarsi tra messaggi contraddittori.
Oppure possono essere intenzionali. E in questo caso penso ai toni trionfalistici di questo o quell’esponente politico per rivendicare i meriti dei presunti successi: la politica, si sa, deve coltivare il consenso e farne manutenzione.
Prima mistificazione. Il numero degli occupati in Italia, dopo un lungo periodo di flessione, è tornato a crescere negli ultimi quattro anni, recuperando tutti i posti di lavoro persi a causa della crisi, fino a toccare cifre da record. «Non si vedevano questi numeri dal lontano 1977»: qualcuno ha esultato così. Vero. Ma il dato non si può leggere isolatamente. Peccato, infatti, che nel frattempo sia crollato il numero delle ore lavorate: nell’ultimo anno sono state 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007, ancora inferiori del 5 per cento nel confronto con l’ultimo anno prima dell’inizio della crisi. Ciò è dipeso dal consistente ricorso alla cassa integrazione causato dalle numerose crisi aziendali (ci sono ancora 160 dossier scottanti sul tavolo del ministro dello Sviluppo economico). I cassintegrati formalmente un impiego ce l’hanno, quindi statisticamente ingrossano le file degli occupati: può sembrare un paradosso, ma è così. Solo nell’ultimo anno le ore di cassa integrazione sono state 216 milioni, ancora 32 milioni in più di dieci anni fa. Ma soprattutto si è verificata una crescita straordinaria degli impieghi part time, aumentati del 38 per cento negli ultimi dieci anni: parliamo ormai di 4,3 milioni di occupati. In particolare, ad aumentare in maniera esponenziale è stato il part time involontario (+131 per cento, ovvero 1,5 milioni di persone in più rispetto al 2007), che riguarda soprattutto i giovani.
Oggi due terzi delle persone con un impiego a tempo parziale ne vorrebbero uno a tempo pieno, ma non riescono a trovarlo. Così, mentre il numero complessivo degli occupati è aumentato dell’1,4 per cento nel periodo 2007-2018 (321 mila in più), giustificando un certo ottimismo, nello stesso periodo le unità di lavoro equivalenti sono diminuite del 3,8 per cento (959 mila in meno), perché si è ridotto il numero medio di ore lavorate per addetto. Questa tendenza si è consolidata anche quest’anno: nel primo semestre del 2019 gli occupati totali sono aumentati dello 0,5 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, gli occupati con un lavoro part time del 2 per cento e quelli con un part time involontario del 2,9 per cento.
Risultato? Cresce l’occupazione, ma non il Pil, le retribuzioni e i redditi. C’è poco da essere contenti.
La seconda mistificazione riguarda l’aumento del Pil pro capite, come a dire che le persone stanno meglio di ieri. Anche in questo caso il dato è vero: ha cominciato a crescere dal 2015, segnando un +4,3 per cento negli ultimi quattro anni. C’è stato dunque un aumento della produttività? No. Perché il Pil per abitante è un rapporto, ed è aumentato non come conseguenza di una crescita consistente del numeratore (il Pil), bensì perché è diminuito il denominatore (la popolazione, che è in caduta libera ormai proprio da quattro anni: in questo lasso di tempo l’Italia ha perso nell’insieme 436 mila abitanti). Di cosa rallegrarsi, se chiunque dovrebbe sapere che una delle principali variabili correlate al peso politico ed economico di un Paese è proprio la sua dimensione demografica?
Innocenti abbagli statistici, insomma. O malevola propaganda. Correggere le due sviste però non è difficile. L’effetto sarà quello di una spiacevole docciafredda. Ma è una «operazione verità» necessaria, perché i consolatori pannicelli caldi e l’uso di dati parziali per indorare la pillola non fanno mai bene alla lunga. Basta guardare un altro indicatore, allora, che tiene insieme tutti i dati appena ricordati: il Pil per occupato. Poiché il numero degli occupati – ma di che occupati si tratta lo abbiamo appena visto – aumentava mentre il Pil stentava, l’indicatore si è attestato su una crescita modestissima: appena lo 0,4 per cento in più negli ultimi quattro anni, certamente insufficiente per risalire ai livelli pre-crisi (-4,5 per cento è ancora il bilancio del Pil per occupato nel periodo 2007-2018). E se dal 2015 effettivamente qualcosa si è mosso, è veramente troppo poco per parlare di un piccolo boom.
Non proprio lucciole per lanterne, ma quasi.
Ne sono convinti anche a via XX Settembre, visto che prudentemente – e realisticamente – la Nota di aggiornamento del Def prevede una crescita dello 0,1 per cento per il 2019 e un +0,4 nel 2020. Per una volta, non ci siamo fatti parlare dietro: anche la locomotiva tedesca arranca (con tutte le conseguenze immaginabili per le nostre imprese esportatrici, che nella manifattura della Germania trovano uno dei principali mercati di sbocco), nubi di recessione si addensano sui cieli degli Stati Uniti (a settembre per la seconda volta quest’anno i vertici della Fed hanno deciso un taglio dei tassi di interesse) e i ritmi di crescita dell’economia cinese a cui eravamo abituati si sono dimezzati. Pesa il raffreddamento della congiuntura internazionale, con il rallentamento dei commerci mondiali e gli investimenti esteri in calo, la «guerra dei dazi» e le nuove barriere tariffarie. Il ritorno all’idea di frontiere nazionali chiuse e impermeabili, in luogo di quelle aperte e porose che sono state il cardine della globalizzazione, ora presenta un conto salato da pagare. Anche per noi.


L’autore è direttore generale del Censis e autore di “La notte di un’epoca” (Ponte alle Grazie, 2019)