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 2019  ottobre 28 Lunedì calendario

Gli 80 anni di Enrico Albertosi. Intervista

Enrico Albertosi, detto Ricky, sabato compie 80 anni e quando ti racconta la sua vita, ricca, piena, meglio di un romanzo d’avventura, non smetteresti più di ascoltarlo. Ha regalato alla Fiorentina la Coppa delle Coppe, al Cagliari il suo unico scudetto, al Milan quello della stella e in Nazionale ha preso le uova in faccia dopo la Corea, è stato il portiere dell’iconica Italia-Germania 4-3 durante il Mondiale in Messico nel ’74 e campione d’Europa nel ’68: «Quella volta sono rimasto in panchina dietro Zoff solo perché mi ero rotto un dito», tiene a precisare con la voce squillante dal buen ritiro di Forte dei Marmi, dove si gode la pensione e la famiglia e ripensa a quello che è stato. Una vita controvento. Sempre fuori dai pali e a volte qualche uscita l’ha sbagliata: «Ma rifarei tutto», dicono con puntiglio il portiere e l’uomo che non si sono negati niente: donne, cavalli, partite (532 in serie A), rivalità accese. Estroverso e spregiudicato, ha vissuto a mille all’ora. Solo un infarto, parecchi anni fa, ha rischiato di metterlo fuorigioco. Da quel giorno ha cambiato stile: meno stress e meno eccessi. «E mica è stato facile». 
L’esordio in serie A alla Fiorentina, la squadra del suo cuore, dove è rimasto dieci anni. 
«E i primi cinque li ho trascorsi alle spalle di Sarti. All’epoca andava così: se eri giovane, dovevi fare la gavetta. Stavo in panchina e da panchinaro sono andato al Mondiale del ’62 con la Nazionale. Oggi sarebbe impensabile. I ragazzi hanno fretta e forse hanno ragione di averla. E poi è cambiata la mentalità, sia delle società che degli allenatori. Donnarumma, quando è entrato nel Milan, non è più uscito. Io ho esordito contro la Roma, ma quando Sarti si è ripreso dall’infortunio mi sono rimesso a sedere». 
Quando se ne va, la Fiorentina vince lo scudetto… 
«Una beffa. Però mi sono rifatto a Cagliari. Ho lasciato i viola perché avevo qualche problema personale e non andavo d’accordo con Bassi, l’allenatore. Mi aveva chiamato Italo Allodi per portarmi all’Inter ma a giugno, con mia grande sorpresa, mi sono trovato ceduto al Cagliari». 
Non deve averla presa benissimo. 
«Non ci volevo andare. All’epoca la Sardegna era una terra di banditi, mi faceva persino paura. E invece mi sono innamorato di quell’isola e di quella gente meravigliosa». 
E ha vinto lo scudetto. 
«Eravamo un gruppo formidabile. Ancora oggi ci vediamo con quei ragazzi: Tomasini, Greatti, Brugnera». 
Il simbolo era Gigi Riva. 
«Gigi sembrava scontroso, in realtà era solo timido. Nell’estate del ’74 mi ha combinato un brutto scherzo: insieme a lui dovevo andare alla Juventus e il suo rifiuto ha fatto saltare anche il mio trasferimento». 
Ma non le è andata male... 
«Perché sono finito al Milan dove ho vinto lo scudetto della stella con Liedholm, un grande allenatore. Lui Scopigno e Valcareggi sono quelli a cui mi sento più legato, uomini che hanno capito il mio carattere. Però mi lasci dire una cosa...». 
Prego… 
«Se fossi andato alla Juventus avrei vinto molto di più e la mia carriera sarebbe stata diversa. E invece a Torino c’è andato Zoff…». 
Con il quale ha litigato… 
«Dino mi soffriva. Nel ’78, ero alla fine della carriera, mi chiama Bearzot e mi chiede: Ricky vuoi fare il terzo portiere in Argentina? Io rispondo sicuro: pur di venire porto anche le valigie. Sarebbe stato il mio quinto Mondiale come nessun altro calciatore italiano a quei tempi. Dopo dieci giorni mi richiama il c.t. e mi dice che Zoff soffre la mia presenza e che è costretto a lasciarmi a casa». 
Come ci è rimasto? 
«Malissimo. E ho criticato pesantemente Dino per i due gol presi fuori dall’area con l’Olanda, uno quasi da centrocampo (ride…). Solo tanti anni dopo, incontrandoci in un albergo, abbiamo fatto pace». 
Ma chi è stato il portiere più forte di tutti i tempi: Zoff o Buffon, o magari proprio lei Albertosi. 
«Gigi è un grande, forse il migliore. Ma se fossi andato a Torino magari lo sarei diventato io…». 
Ha sentito più la rivalità con Sarti o quella con Zoff? 
«Sono state diverse. A Sarti portavo le valigie. Con Zoff me la sono giocata. Eravamo diversi: lui taciturno, io estroverso. Lui maniacale negli allenamenti, io pronto la domenica». 
Anche in Nazionale ha pagine molto belle e al tempo stesso molto brutte da raccontare. 

«L’azzurro, per quelli della mia generazione, era un traguardo perché solo i migliori ci arrivavano. Ne ho viste tante in quindici anni. Non posso dimenticare il lancio di uova quando siamo tornati dall’Inghilterra dopo la sconfitta con la Corea e neppure Italia-Germania 4-3, la partita di una generazione, la migliore del secolo». 
Prima di finire la carriera poteva andare ai Cosmos con Chinaglia e Pelè. 
«Ma sono stato squalificato per il calcioscommesse e tutto è svanito. Cosa è successo? Sono stato un ingenuo. Quando sono stato contattato dai laziali ho riferito cosa era successo a Felice Colombo, il presidente del Milan, anziché denunciare tutto alla Federazione. E ho pagato». 
Così ha finito a Porto Sant’Elpidio. 
«Sentivo di poter dare ancora qualcosa. Non era il momento di smettere. Il secondo anno ero portiere e allenatore allo stesso tempo ma durante una partitella di allenamento in famiglia in cui giocavo da attaccante mi sono rotto il crociato. In quel momento è finita». 
Ora si gode la famiglia. 
«Sono felice con Elisabetta, la mia seconda moglie da oltre quarant’anni. Festeggerò 80 anni con lei e i miei figli. Sereno. Non ho rimpianti. E ho la coscienza a posto. Forse sono stato un po’ matto, come tutti i portieri, però me la sono goduta». 
E il calcio di oggi? 
«È diverso, lo guardo con una certa distrazione. Guardo soprattutto i portieri. Penso che ai miei tempi c’era più concorrenza: Anzolin, Ghezzi, Lido Vieri, Castellini e sicuramente dimentico qualcuno. Adesso quelli bravi italiani sono pochi». 
Mancini punta su Donnarumma anche se Sirigu lo incalza. Lei chi farebbe giocare? 
«Intanto proverei Meret: è giovane, è bravo e ha un gran futuro».