Corriere della Sera, 28 ottobre 2019
Intervista a Andrea De Carlo
Andrea De Carlo, 66 anni, venti romanzi tradotti in 26 lingue, dopo l’ultimo, Una di Luna, uscito un anno fa, non sta scrivendo. Seduto in un bar sotto casa, sui navigli di Milano, dice: «Ogni volta, penso che non scriverò più, che non avrò l’idea giusta o la voglia». Il punto è che fra un libro e l’altro ha bisogno di vivere. A essere precisi «di viaggiare, fotografare, disegnare, suonare la chitarra e l’intera famiglia dei mandolini». Lo sguardo va. «Ho sempre visto gli scrittori che scrivono e basta come topi in gabbia». Trent’anni fa, usciva Due di due, long seller da un milione e mezzo di copie ora rieditato da La nave di Teseo. Era la storia di due amici: Guido, ribelle e anarchico, e Mario, più pacato. «Erano due parti di me», ammette De Carlo. «Mentre scrivevo, sentivo la storia così intima che credevo potesse interessare solo a chi, come me, aveva vissuto il ’68 da liceale e provato la stessa estraneità verso la scuola, la famiglia, il mondo».
A distanza di 30 anni, ha prevalso in lei l’anima quieta o inquieta?
«Sono lì tutte e due. La parte riflessiva serve a scrivere, se no, vivi e non racconti. L’altra si è realizzata in esperienze, viaggi».
Lei, da ventenne, come Guido nel romanzo, emigrò in Australia e, come il protagonista di «Treno di panna», ha vissuto a New York, suonando, facendo il cameriere. Che razza di cervello in fuga era?
«Cercavo me stesso altrove. E sempre era una migrazione, mai un viaggio».
Da adulto, come il Mario di «Due di Due», ha vissuto in campagna più che a Milano.
«Ho un casale fra i boschi umbri, dove mi viene da sopravvivere col minimo. Lì, scopro di aver bisogno sempre di meno. Per anni, non ho avuto il riscaldamento e ho preso l’acqua da un pozzo che quasi si esauriva d’estate».
Come nasce l’idea di diventare scrittore?
«A 11 anni, lessi I tre moschettieri e sentii che il romanzo era la dimensione che volevo abitare. Solo anni dopo, capii che l’unico modo per abitarla per sempre era scrivere».
Com’è fatta questa dimensione?
«È un luogo libero da tempo e spazio, in cui hai 11 anni ma ti identifichi con un venticinquenne guascone che sta a Parigi nel ‘600».
A meno di 30 anni, da assistente fotografo di Oliviero Toscani, si ritrovò autore di un libro con la quarta di copertina firmata da Italo Calvino. Come successe?
«Avevo già nel cassetto due libri che consideravo tentativi. Invece, Treno di panna aveva una voce mia e lo mandai a un po’ di case editrici. Mesi e nessuno risponde. Poi, un amico torinese mi fa: hai provato a farlo leggere a Italo Calvino? Mi sembrava follia, ma lui gli lasciò il manoscritto in portineria alla Einaudi. Fu così che ricevetti una sua lettera, ma tanto Calvino era meravigliosamente comunicativo quando scriveva, tanto era raggelante di persona: lo incontrai e disse forse due o tre parole».
Fu un esordio acclamato dai critici.
«Quel consenso mi lasciava interdetto: ero molto polemico verso il poco che sapevo del mondo delle lettere italiano. I miei riferimenti erano Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Jack Kerouac e, sul mio stile, influivano fotografia e cinema, soprattutto Robert Altman e Michelangelo Antonioni».
Con Antonioni scrisse un film mai uscito...
«Era il seguito di Blow-Up, ambientato a Milano, ma lui morì prima che finissimo».
L’incontro con Federico Fellini?
«A un premio, a Rimini. Dopo, mi chiamò: aveva letto Uccelli da gabbia e da voliera e me ne parlò con generosità sconvolgente. Gli raccontai che Nanni Moretti voleva i diritti e non glieli avevo dati: mi pareva che non c’entrasse niente col protagonista. Al che, Fellini mi disse che dovevo imparare io a fare il regista e mi nominò suo assistente sul set de E la nave va».
Com’era Fellini visto da vicino?
«Amava avere una corte di cui essere affabulatore. S’inventava le cose, era un gran bugiardo e trasformava tutti in personaggi: era un manipolatore che ti succhiava il sangue. Ho incontrato molti zombie di Fellini».
Perché zombie?
«Persone che esaltava al punto che, quando il suo interesse li abbandonava, di loro non restava più niente. Io stesso ero conscio del rischio di finire vampirizzato. Infatti non scrissi mai il libro che Fellini voleva facessi su di lui».
Avventure comuni con maghi e affini?
«L’ho accompagnato da fattucchiere di infimo livello e, a Torino, da Gustavo Rol. Era un luglio caldissimo, Rol era glaciale: percepiva la mia diffidenza. Poggiò un quadro vuoto accanto a una lampada, che accese, e uscì dalla stanza. La tela iniziò a riempirsi di fiori. Sere dopo, a una cena, Fellini racconta del quadro e Piero Angela spiega che era dipinto con una vernice fotosensibile. Fellini andò via ripetendo: quel Piero Angela, che sia maledetto per sempre!».
Qual è la vera storia del viaggio di cui lei scrisse in «Yucatan»?
«Tanti che non c’erano raccontano cose che non ho mai visto. Fellini voleva fare un film su Carlos Castaneda e le sue origini misteriose. Arriviamo a Los Angeles e vedo quest’uomo senza età, capelli corvini, un bastone che chiamava “la mia bacchetta magica”. Dovevamo andare insieme nel New Mexico, ma Castaneda iniziò a ricevere messaggi minatori da cosiddetti “messicani” e sparì. Partimmo noi, ma ci ritrovammo inseguiti dalle telefonate dei messicani nei luoghi più sperduti e da biglietti bruciacchiati che dicevano: volete entrare nel giardino sbagliato. Fu un percorso esoterico impossibile da decifrare. Abbandonato il progetto, dissi a Fellini che sarebbe stato bello scriverci su un romanzo. E lui: Andreino, è una grande idea. Invece, considerava sua la storia: fu l’inizio della fine della nostra amicizia».
Dopo, lei si sperimentò alla regia.
«Quando girai il film tratto da Treno di panna, sbagliai tutto quello che potevo sbagliare. Mi trovai prigioniero di ragioni economiche e commerciali, eppure, la produttrice Claudia Mori mi aveva detto: stai tranquillo, i soldi li abbiamo già fatti, non abbiamo bisogno di farne altri. Invece, m’imposero Carol Alt, che era bella ma non sapeva recitare, e tagliavano su tutto. Ricordo le risse: appesi al muro il produttore Luciano Luna, gli saltarono i bottoni della camicia. Lì capii la libertà del romanziere, che spazia come vuole. Peccato: del film, mi piace che sia un lavoro collettivo, mentre la solitudine dello scrittore è anche sofferenza».
Cosa fa male della solitudine da scrittore?
«Io devo arrivare al punto in cui mi dimentico dove sono. È un processo quasi medianico di abbandono del corpo».
Com’è passato da giovane autore amato dai critici a uno che ha detto «vendo troppo, per i critici sono troppo commerciale»?
«Nell’84, presentai Macno da Pippo Baudo. Non si era mai visto uno scrittore nella tv nazionalpopolare. Vendetti 50 mila copie e fu la svolta: iniziai a vivere del mio lavoro, concetto fino ad allora improbabile. All’inizio, il celebre agente Erich Linder mi aveva chiesto: che lavoro fa? E io: scrivo. E lui: vivere di scrittura è impossibile, si trovi un lavoro. Dopo, ricordo i miei “porca miseria” e la rabbiosa convinzione che invece fosse possibile. Comunque, con Macno, arriva la presa di distanza dei critici, che hanno un riflesso condizionato con chi vende, chi è prolifico o scrive di sentimenti».
Lei ha tutti e tre i difetti.
«Dunque, sono meno nobile di altri. Ma l’ho metabolizzata. Dieci anni fa, mi sono anche dimesso dalla giuria dello Strega, denunciando le pressioni degli editori sui giurati. Consapevole che non avrei più vinto quel premio».
Quanto conta l’amore nella sua vita?
«È fondamentale in tutte le sue forme, come uomo, come padre, come amico».
È stato considerato un sex symbol: fan impazzite, titoli tipo: piace come una rockstar.
«Anche lì... C’è l’idea che lo scrittore sia un triste topastro chiuso nella sua stanza, ma per Hemingway, Fitzgerald, Dumas non era così».
Con Eleonora Giorgi entrò pure nel mirino dei paparazzi.
«Lei era abituata. Per me, trovarli al supermercato era una violazione intollerabile».
Ora, ha una compagna?
«Sì, e non sono cose di cui riesco a parlare».
Si è pentito dei riferimenti alla storia con l’arpista Cecilia Chailly in «Arco d’amore»?
«Forse passai un po’ il confine fra vita privata e letteraria. Ma, di base, nella scrittura, credo nel dovere dell’autenticità».
Ha una figlia trentenne, che padre è?
«Vorrei essere un padre-amico, invece viene il momento in cui devi assumerti la responsabilità di dire cose scomode o intransigenti».
Un bilancio di vita?
«Sono contento di quello che ho alle spalle, ma so di non essere giunto all’illuminazione».
L’illuminazione è un’ambizione?
«Lo sarebbe. Per ora, mi accontento di lampi di luce».