Il Messaggero, 28 ottobre 2019
I 50 anni di musica di Mario Lavezzi
L’ho sempre visto con quel sorriso che non è stampato in volto per abitudine, ma per la felicità del vivere. Mario Lavezzi compie 50 anni. Di musica, ovviamente. Per festeggiare, esce un cofanetto bellissimo formato 33 giri (che sarà presentato oggi alle 18 alla Feltrinelli di via Appia Nuova a Roma), con tre cd corrispondenti ai tre percorsi (autore, produttore, cantautore) e un 45 giri in vinile con alcune rarità. Titolo perfetto: E la vita bussò.
Come ha bussato la vita?
«Presentandosi sotto forma di chitarra. Una folgorazione. La prima volta che ne vidi una, apparteneva a mio cugino, era appesa a un muro. Rimasi a guardarla senza il coraggio nemmeno di toccarla. Mi sembrava enorme, come sono enormi i sogni a otto anni. Due anni dopo, mia sorella Annabella tornò a casa con una chitarra e mi disse: Guai a te se osi toccarla. Non la suonava mai, così un giorno le dissi: Senti, se non la usi, dalla a me. E cominciai a suonare».
Quali canzoni?
«Beatles, Stones. Nel cofanetto c’è una versione di Yesterday che zoppica tanto, ma che ho voluto mettere perché racconta l’ingenuità di quegli anni».
Che anni erano?
«Bellissimi. Un Nuovo Illuminismo. Si produceva in tutti i settori. C’erano valori, creatività e ideali in tutti i campi, dalla politica all’economia all’arte. Il nostro sogno era spezzare con il passato e guardare avanti. Oggi è il presente che si spezza, tutto è decadenza. Lo dico senza paura di sembrare vecchio. Una volta si inventava, oggi abbiamo smesso persino di sognare».
A chi deve di più?
«Alla mia famiglia, che mi ha permesso di non seguire le orme di mio nonno, pretore, e di mio padre, avvocato. A Franco Bastoni, che mi ha insegnato a suonare la chitarra e che mi consentiva di accompagnarlo nei festival studenteschi. Al Giambellino, quello di Gaber, che è stato il mio quartiere. Vivevamo tutti lì, io, Lucio Battisti e i Camaelonti. Su una panchina di piazza Napoli ho suonato le mie prime canzoni. Nella mia Milano».
La sua prima canzone è Il primo giorno di primavera.
«Ero stato costretto ad abbandonare i Camaleonti per il militare. Ero disperato. Il tormento aiuta la creatività. Se vuoi fare l’artista, mai avere il culo al caldo. La scrivo a casa dei miei, a Valganna. Stupidamente, la intitolo Giovedì 19. La faccio ascoltare a Mogol, che mi dice: Ma sei scemo? È appena uscita 29 settembre. Cosa facciamo, canzoni o calendari?. Così cambia il primo verso e cambia la mia vita. Primo posto in classifica grazie ai Dik Dik e via».
Bella amicizia, quella con Mogol e Battisti.
«Pensi che abbiamo fatto persino una battuta di caccia a Titograd, la capitale del Montenegro che oggi si chiama Podgorica. C’erano anche Mariano Rapetti e Alberto Radius. In 5 con 2 sole licenze, da pazzi. E poi siamo diventati tutti nemici della caccia».
Parliamo di donne.
«Ne ho solo una, Mimosa».
Con quel nome, impossibile sostituirla. Parlavo di artiste. Loredana Bertè.
«Mi ha forgiato. Una palestra, un vulcano. Un’intuizione dopo l’altra. Una volta tornò dalla Giamaica con una valanga di dischi reggae, un genere sconosciuto in Italia. Li ascoltai, poi, dopo aver tratto ispirazione anche dai Ten C.C., scrissi E la luna bussò. In alto mare, invece, nacque una sera al Divina, un locale di Milano, dopo aver sentito la Love Unlimited Orchestra. Sbagliano i ragazzi di oggi che ascoltano poca musica. Se lo fai, l’ispirazione arriva».
Con Loredana ha avuto anche una bella storia d’amore.
«Cinque anni. Due di idillio, tre di massacro».
Ornella Vanoni.
«Ornella è Ornella. Che cosa si può aggiungere? Curiosa, intelligente, non molla mai. Sempre informata su tutto. Oggi che ha perso tutti i freni inibitori è irresistibile».
Fiorella Mannoia.
«Ho sempre scelto di lavorare con artiste di personalità vocale. Non basta saper cantare, bisogna anche aver voglia di comunicare. Arrivare al cuore. Fiorella è tutto questo. Jovanotti e Vasco cantano bene? No, per niente. Ma sono grandi comunicatori».
Una delle canzoni a cui è più legato è Vita.
«L’ho scritta con Mogol. In origine si intitolava Angeli sporchi. È dedicata a una ragazza di cui si era innamorato Mogol. Giulio dovrebbe ammettere che tutte le canzoni che ha scritto per Battisti parlano di sue donne. Di donne che ha avuto o anche solo conosciuto. Lei gli aveva raccontato per filo e per segno il suo passato. Ne aveva fatte di tutti i colori, non si era fatta mancare niente. Ma proprio niente. Poi, Lucio Dalla la sentì e cambiò storia e prospettiva. E la intitolò Vita. Lucio, in questo, era geniale. Prendeva canzoni di altri e le portava altrove».
Se si guarda alle spalle cosa vede?
«Il domani».