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 2019  ottobre 28 Lunedì calendario

Autobiografia non autorizzata di al-Baghdadi

Limes ha chiesto a un analista esperto del contesto in cui viveva il sedicente califfo Abū Bakr al-Baġdādī di mettersi nei suoi panni. Ripercorrendo le tappe che lo hanno elevato al vertice dello Stato Islamico.
Ancora adesso, quando la notte si fa più buia e non riesco ad addormentarmi al termine di una giornata lunga e tesa e di un’ininterrotta teoria di persone che pretendono da me la soluzione di ogni loro problema, mi viene istintivo riandare con la memoria – mentre giaccio sdraiato sul divano o sul letto che mi ospiterà per quella notte, e per quella soltanto! – al periodo trascorso in prigionia, nelle strutture americane di detenzione di Camp Adler e Camp Bucca, nel Sud del nostro paese.
Ci penso per ore. Il sonno non è facile quando sai che la morte può raggiungerti in ogni momento. Una morte silenziosa, che arriva dal cielo ed è pilotata da una macchina. Dietro cui c’è un uomo, è vero, ma si tratta di un uomo che è diventato anche lui quasi una macchina e che gioca con un joystick come se i suoi droni fossero parte di un videogioco… e io un Packman o magari un Super-mario, da inseguire e uccidere.
Un uomo che se ne sta dall’altra parte del mondo, in Alabama, in Florida o in Sud Dakota e che finito l’orario di lavoro passerà magari a un altro grigio impiegato i comandi dell’apparato e andrà a mangiare a casa, dove l’attendono i suoi bambini – che lui ama, come del resto io amo i miei – e una moglie che gli chiederà della giornata e a cui lui risponderà «routine!», anche se quello sarà il giorno in cui sarà riuscito a uccidermi.
Che morte triste, grigia e oscura sarebbe! E che differenza dai tempi eroici della prima ondata di espansione dell’islam, quella che sogno di ripetere, quando Ibn ‘Amr conquistava il Cairo, Ṭāriq passava lo Stretto di Gibilterra e sottometteva al-Andalus, mentre ‘Alī al-Walīd, «la spada dell’islam», attraversava come un bagliore scarlatto i campi di battaglia! C’era onore allora, c’era gloria! E la morte poteva essere qualche cosa degna di una poesia o di un racconto, riempiendo per secoli i sogni di tutti coloro che volevano divenire guerrieri. Oltretutto Iddio, nella sua infinita generosità, ci aveva fatto dono dei due animali da guerra più belli che esistessero: il cavallo, straordinario nel suo impeto e nel modo in cui si fondeva in battaglia col cavaliere che lo montava sino a che i due divenivano una cosa sola; e il cammello, ammantato di un livello di dignità tanto incredibile da arrivare a far dimenticare le vette della sua sgraziata goffaggine.
Ma è inutile che io mi lamenti e rimpianga. La realtà con cui devo fare i conti ora è ben diversa. Una realtà di diavolerie elettroniche che non hanno margine di errore nel momento in cui ti hanno individuato. Che ti infilano un missile nell’orecchio, come successe al capo ceceno Dudaev quando parlò nel cellulare di cui i russi avevano individuato il numero. Che scoprono il covo in cui ti stai nascondendo a dispetto di tutte le precauzioni che hai preso e le complicità di altissimo livello di cui godi.
Come si è verificato con il migliore di noi, Osama bin Laden. O che colpiscono magari quando stai seduto a un pranzo di nozze – con buona pace dei cosiddetti «danni collaterali», ma anche l’Occidente è capace di avere il suo bel pelo sullo stomaco! – dopo che qualcuno di coloro che tu hai più vicini e che stimi come amici ti ha tradito per incassare la taglia principesca che pende sul tuo capo.
Io non uso mai né telefoni né altre attrezzature elettroniche, un obbligo che mi sono imposto e che faccio rispettare anche a tutti coloro che mi sono vicini. Non sto mai fermo e non passo mai due notti nello stesso luogo. È facile anzi – succede spesso – che completi la notte in un luogo diverso da quello in cui l’ho iniziata. Ciò che temo di più è quindi il tradimento. È la ragione per cui non ho mai designato un delfino, né mai lo farò: perché dovrei farlo? Per tentarlo? Perché si metta d’accordo con gli americani per eliminarmi e prendere il mio posto?
È sfiducia negli uomini? No, è semplicemente conoscenza di tutto ciò che essi possono fare, nel bene e nel male. Mantengo così ben potato il mio boschetto, in modo tale che nessun albero possa svettare divenendo tanto grande da poter far da solo, anziché trarre la propria forza unicamente dalla foresta che lo circonda.
Cosa possano essere e fare gli uomini, proprio a Camp Adler e a Camp Bucca lo ho imparato. Alla fine il periodo di detenzione si è rivelato per me una grande scuola, che ha completato la mia preparazione. È stato un periodo difficile, duro al limite del disumano, in cui almeno all’inizio mi sono chiesto anch’io se non sarebbe stato meglio cedere, lasciarsi andare e smettere di combattere come facevano in tanti. Invece ho resistito, indurendomi progressivamente e scoprendo dentro di me risorse che non avrei mai pensato di avere e di cui forse in altre circostanze mai avrei sospettato l’esistenza.
Due fattori fra tutti gli altri mi hanno aiutato a non cedere. In prima istanza l’orgoglio, un sentimento classificato sempre come vizio, ma che in circostanze particolari si trasforma in virtù. Poi il senso del gruppo, dal momento in cui ho scoperto che fra noi c’erano altri della mia stessa pasta, che non intendevano piegarsi ed erano disposti a perdere anche la vita pur di mantenere la dignità intatta e non rinunciare ai propri sogni.
Così proprio a Camp Adler e a Camp Bucca ci siamo trovati e riconosciuti mettendo insieme capacità, aspirazioni e progetti sino a formare quella massa critica di intelligenze e volontà che è indispensabile per far maturare un grande disegno. I carcerieri americani passavano e controllavano, sequestrando tutto quanto appariva sospetto, ma per fortuna non ebbero mai l’idea di mantenerci separati.
Disponevamo così in abbondanza della risorsa più preziosa di tutte, quella che sempre difetta e molto spesso manca del tutto: il tempo. Nei campi avevamo tutto il tempo che volevamo per maturare idee e progetti, sottoporli a confronto e dibattito, migliorarli, riesaminarli e via di questo passo, con un ciclo a spirale che si ripeteva in continuazione, come quando nei tempi andati si temprava la lama di una spada e l’acciaio bisognava batterlo e ribatterlo e ogni volta usciva migliorato dal crogiolo.
Quando siamo usciti dalla prigionia, rilasciati nel momento in cui i nostri carcerieri stavano per andarsene dal paese e la situazione dell’Iraq sembrava aprirsi a una prospettiva di relativa stabilità, sapevamo con precisione cosa volevamo e come ci saremmo mossi tutti insieme per realizzare i nostri progetti.
Lo scenario oltretutto appariva particolarmente favorevole. Il mondo stava cambiando con una rapidità tale da aprire grandi spazi all’ambizione e all’audacia. I vecchi controllori, «i gendarmi della pace» di un tempo, apparivano logorati, stanchi, desiderosi solo di tornarsene a casa rifilando prima possibile a qualcun altro – chi fosse non importava, purché apparisse presentabile, almeno all’inizio, alla loro opinione pubblica – il costoso compito di estrarre in continuazione, con paziente tessitura, l’ordine dal caos.
Nel vuoto di potere che in questo modo si veniva a creare si scontravano le aspirazioni di potenze regionali in crescita, in competizione fra loro per ritagliarsi aree di influenza quanto più ampie possibili.
Sull’area dell’Iraq e della Siria, in particolare, si concentravano le brame dell’Iran, della Turchia, dell’Egitto, dell’Arabia Saudita, di alcuni degli emirati del Golfo. Un vero e proprio osso polposo, conteso da un branco di cani che non voleva rischiare un coinvolgimento diretto ma che non lesinava mezzi, incitamenti e sostegni per attizzare scontri intestini, giostrando sulla pluralità religiosa dei credo praticati nell’area.
La religione, già proprio quella! La migliore delle eredità giunte a noi attraverso i secoli diveniva motivo e strumento del contendere, era sbandierata dall’una e dall’altra delle parti in contrasto, veniva trasformata in veicolo per esaltare ambizioni molto terrene. Ma del resto da noi è sempre andata così e la religione è costantemente rimasta al centro della nostra vita e della nostra storia: l’Iraq e la Siria sono state le terre degli Abbasidi e degli Omayyadi, le due più grandi dinastie di califfi e il termine «califfo», è bene non scordarsene, significa successore. Ovviamente del Profeta, che Dio benedica il suo nome!
E non è poi che le cose siano andate molto diversamente nei paesi che ci circondano e che aspirano al primato regionale. L’Arabia Saudita è dominata da una famiglia che ha avuto accesso al potere e al potere si mantiene solo grazie a una simbiosi col credo wahhabita, proteso da sempre verso una costante espansione che dovrebbe portarlo a dominare tutta la comunità dei credenti.
L’Iran è dominato, da più di una generazione ormai, da un clero rigidamente strutturato che ne ha fatto il campione del mondo sciita. In Egitto la Fratellanza musulmana rimane onnipresente anche se messa al bando, mentre l’Università di al-Azhar resta il polo intellettuale per eccellenza di noi sunniti. In Giordania la dinastia hascemita mantiene il trono solo perché nelle sue vene scorre il sangue del Profeta. In Turchia infine l’idea di laicità del paese, che Atatürk aveva lasciato al popolo e affidato alla custodia dell’esercito, sembra definitivamente sconfitta e il presidente Erdoğan finirà col ricordarsi prima o poi che per secoli il sultano ottomano ha rivestito anche la dignità di califfo dell’intero mondo islamico… e col rimpiangere quei tempi.
E del resto perché non strumentalizzare la religione, l’unico fra i nostri comuni valori che rimanga intatto e sia passato indenne attraverso tutte le tempeste della storia? Nel mondo arabo in particolare è soltanto essa che ancora siede intatta sul cumulo di macerie materiali e ideologiche lasciate da tutti i governi che hanno tentato di governarci e che sono invece riusciti solo a opprimerci. Gli Omayyadi, gli Abbasidi, i Fatimidi, il Vecchio della Montagna: tutti passati! Mamelucchi: passati! Il sultano ottomano: passato! I governi coloniali: passati! Il socialismo arabo: passato! Le pseudodemocrazie ispirate all’Occidente: passate! E poi un misto che comprendeva tutto: democrazie, regni, dittature, partiti… tutto passato e ogni crollo aggiungeva macerie al mucchio. È venuta infine la primavera araba e anche essa è passata con una rapidità proporzionale alla sua fragilità. Macerie, ulteriori macerie.
Vi sembra strano che a questo punto anche a noi, chiusi a Camp Bucca e già accusati di aver fatto del fanatismo religioso la matrice di una lotta che il nostro carceriere americano definiva come terroristica, sia sembrato logico non soltanto continuare per la strada intrapresa, ma cercare altresì di massimizzare tutto il supporto che la religione poteva fornirci in vari modi? La scelta di insistere sulla religione è stata dunque facile, obbligata. Altrettanto facile è stato decidere quale orientamento religioso scegliere fra i numerosi rami cresciuti nei secoli dal vigoroso albero dell’islam.
La religione doveva infatti essere per tutti noi una bandiera capace di riunire dai quattro angoli del globo un popolo disperso, un urlo che risvegliasse la gente dal suo torpore, un motivo per cui valesse la pena vivere ed eventualmente morire, un ricordo e una nostalgia del passato, una speranza per il presente, un sogno di speranza e riscatto per il futuro. Posti di fronte al problema della scelta abbiamo così deciso di risolvere il problema non risolvendolo, scegliendo cioè il tronco dell’origine e non uno dei suoi rami e facendo riferimento all’islam purissimo delle origini, quello che il Profeta – sia lode al suo nome benedetto! – illustrava agli anṣār, ai propri compagni.
Non è stato facile, una volta usciti di prigione e ripresa la lotta, riuscire a far sì che la comunità dei credenti giungesse a identificarci con quel tipo di religione. Non eravamo infatti i soli ad aver avuto questa idea e il novero di quanti miravano a ricoprire il ruolo si presentava particolarmente ampio. Sul piano dottrinale c’erano i wahhabiti e i salafiti, nonché altre sètte minori fattesi avanti da tempo, ciascuna appoggiata da una costellazione di sostenitori più o meno importanti. Dal punto di vista pratico, esisteva poi tutta una serie di movimenti estremisti – al-Qā‘ida il maggiore e il più conosciuto di essi – che buona parte del mondo islamico considerava ormai come i campioni di un ritorno alla purezza delle origini propiziato e accelerato dall’uso della violenza.
Nel primo periodo della nostra azione dovemmo quindi procedere con cautela e mettere in atto quelle astuzie di guerra che il nostro credo ci consente, purché siano indirizzate a buon fine. Siamo entrati così in altri movimenti e vi abbiamo fatto carriera, acquisendone le tecniche, studiandone le strutture, affascinando coloro con cui lavoravamo e salendo poco per volta i gradini del comando sino a quando non siamo stati in grado di rivelare alla luce del sole la nostra forza e di seguire senza più nasconderci una strada divenuta palesemente e unicamente nostra.
A quel punto intervenire in Siria e in Iraq diveniva la strada ideale per iniziare a ricostruire la dār al-salām, la casa della pace in cui l’islam regna (o dovrebbe regnare) da incontrastato sovrano. Recuperare tutto ciò cui Iddio nella Sua gloria e nella Sua luce ci ha dato diritto, riconquistare territori che un tempo splendevano della nostra fede e cultura e che da secoli sono caduti nelle mani di altri, riportare le nostre bandiere nelle fortezze della cristianità facendole garrire al vento sulla Spagna, sulla Francia meridionale, sulla Sicilia, su Malta, sui Balcani, sulla Crimea, sul Caucaso, respingere e progressivamente distruggere le schiere dei nuovi crociati per annientarli poi con un unico colpo mortale come fece il Saladino (Ṣalāḥ al-Dīn) ai Corni di Hattin (Ḥiṭṭīn). Si può immaginare un sogno più bello e più glorioso per riempire la propria vita e accettare eventualmente con serenità e gioia anche la propria morte?
Così ci mettemmo in marcia nelle aree sunnite di due paesi in cui la popolazione era ormai matura per seguire chiunque riuscisse a darle una speranza di affrancamento da un giogo sciita che si era fatto sempre più duro negli anni, sino a divenire insopportabile. In Iraq i governi centrali avevano infatti disatteso per ben due volte le aspettative dei nostri correligionari che avevano accolto con gioia la caduta di Saddam Hussein, considerandola come la premessa di un’èra di democrazia e buona amministrazione.
Col tempo era divenuto chiaro come gli sciiti, massicciamente sostenuti da Teheran, non avessero intenzione di cedere alla loro controparte sunnita nemmeno le briciole del potere che aveva finito con l’essere interamente concentrato nelle loro mani. Alla delusione dei primi tempi, sfociata in numerosi episodi di resistenza armata, se n’era poi sommata una seconda, innescata dalla violazione da parte del governo al-Mālikī delle promesse che gli americani avevano fatto alle tribù sunnite per convincerle ad appoggiare la riconquista del generale Petraeus.
A quel punto non vi era ancora guerra nella parte dell’Iraq che ci interessava, ma si viveva in uno stadio preinsurrezionale di totale insoddisfazione, costellato di quotidiane violenze, di terrorismo di varie e differenti matrici, di criminalità rampante, di povertà e disoccupazione, di malgoverno che a volte giungeva addirittura a registrare la completa assenza dell’ordine e della legge. L’esasperazione collettiva era tale che i cittadini apparivano pronti ad accettare chiunque fosse capace di imporre, non importa con quali mezzi, una forma qualsiasi di ordine. Noi ci infilammo in questo vuoto, sfruttando la loro aspirazione e dando alle tribù sunnite d’Iraq ciò che esse in quel momento più desideravano: una regola!
All’inizio non eravamo molti, al punto che per qualche tempo gli amici di Camp Bucca e di Camp Adler furono sufficienti a controllare le nostre poche unità. Poi riuscimmo progressivamente ad attivare tre forme privilegiate di reclutamento, coinvolgendo dapprima i vecchi quadri delle Forze armate di Saddam Hussein, che ci portarono in dote la loro expertise militare; poi la diaspora internazionale dei jihadisti che avevano fatto della loro vita un combattimento ininterrotto per la causa e la fede, e che resero l’intero mondo islamico compartecipe della nostra lotta; infine, e questo fu l’apporto più prezioso in termini di numeri, entusiasmo e impatto psicologico sui crociati del cosiddetto Occidente, arrivò l’islam di seconda o terza generazione delle periferie frustrate delle grandi città europee, americane e russe.
In Siria le cose furono per molti aspetti più difficili, per altri decisamente più agevoli. Lì ci inserimmo in una guerra civile feroce che l’accentuato frazionamento delle forze antigovernative aveva trasformato in una guerra tra bande. Dopo anni di combattimenti e di orrori da entrambe le parti il presidente al-Asad, pur essendo soverchiato dal numero dei combattenti avversari, riusciva ancora a resistere a Damasco e a tenere in tutta l’area sciita grazie proprio al frazionamento e al fatto che le milizie, disposte a battersi fino alla morte per difendere la propria città o zona, da esse non amassero allontanarsi.
La situazione era resa ancor più complessa dal fatto che ciascuna delle varie fazioni aveva trovato uno o più sponsor in potenze regionali disposte a rifornirle di armi e denaro e a procurare magari l’appoggio degli Stati Uniti, alla disperata ricerca di «moderati» disposti a combattere e a morire al posto dei loro soldati. Come se fosse possibile che qualcuno privo di una fede assoluta ed estrema nella propria causa e nel proprio buon diritto sia disposto a mettere sul tavolo una posta tanto alta come la propria sopravvivenza!
Per inserirci in Siria anche noi abbiamo approfittato, come al-Asad, del frazionamento dei nostri numerosi compagni di strada, associandoceli allorché ci conveniva e combattendoli quando rifiutavano di seguirci. Un procedimento a corrente alternata che è durato sino a quando l’impressione che stessimo vincendo non ha dato origine anche qui a un effetto di trascinamento, con la gente che faceva la corsa per salire in tempo utile sul nostro carro e magari consegnarci le armi ricevute la settimana prima dagli Stati Uniti.
Abbiamo veramente vinto? Per almeno due aspetti di sicuro. Da un lato infatti, con la mia proclamazione a «califfo» abbiamo piantato un nuovo seme di universalità e unicità nella umma, la comunità dei credenti. Un seme che in futuro sarà ben difficile se non impossibile sradicare. Dall’altro abbiamo dimostrato come fosse ormai tempo di ridisegnare le frontiere di quest’area del Medio Oriente, tenendo accuratamente conto di tutti gli elementi a suo tempo trascurati dalle potenze europee che fissarono i confini. Cosicché quando l’Occidente si sveglierà e i nuovi crociati, o peggio alcuni dei regimi arabi loro lacchè ci di- struggeranno sul campo, quello che abbiamo realizzato qui non si potrà cancellare del tutto. Rimarrà in ogni caso un nuovo Stato sunnita che ricoprirà l’area della Siria e dell’Iraq da noi conquistata e liberata.
In molti altri settori la situazione invece è ancora incerta. Un sondaggio di Aljazeera ci attribuisce un livello di simpatie pari a circa l’80% in tutto il mondo arabo. Ora però stiamo vincendo; cosa succederà se e quando inizieremo a perdere? Gli arabi non amano i perdenti! E poi come sono distribuite le nostre simpatie? Chi ci ama, le masse o le élite? E come ci amano, con il cuore o con la mente? Sono interrogativi importanti, cui per il momento non sappiamo dare risposta.
Sappiamo invece molto bene come e quanto l’Occidente ci tema e quanto di conseguenza ci odi. È un odio che abbiamo ricercato e costruito con tutti i mezzi possibili, per rinforzare quella contrapposizione fra «noi e loro» che dovrà rimanere tanto dura da non consentire che qualcuno nutra un giorno la tentazione di mediare, onde rimettere insieme le due parti della mela. Rendendo di conseguenza vano tutto ciò che noi abbiamo fatto e patito per far trionfare la verità!
Siamo così arrivati a estremi in altri tempi inconcepibili nell’attaccare le due cose che l’Occidente più considera: il rispetto della vita umana da un lato, della bellezza e dell’arte dall’altro. Lo abbiamo fatto con una crudeltà tanto più assoluta in quanto del tutto fredda, impersonale, con prigionieri che le tenute arancioni rendono tutti eguali, quasi si trattasse di robot o peggio di un gregge di pecore.
E proprio come pecore li abbiamo fatti sgozzare, uccisi da un boia mascherato e vestito di scuro, in modo da far diventare anche lui una macchina o addirittura l’uomo nero e cattivo dei racconti che ci facevano da bambini. Con la stessa fredda impassibilità abbiamo poi infierito sui monumenti più significativi delle aree conquistate, ben consci che cancellare Ninive o dinamitare Palmira significasse non solo ridurre in polvere blasfemi tentativi di scimmiottare l’inimitabile capacità creatrice di Dio, ma anche tagliare una volta per tutte radici insostituibili della storia e della cultura dei nostri nemici.
Finora il terrore usato come arma ha funzionato perfettamente. La coalizione creata dagli americani per combatterci si limita a colpire dall’aria, senza osare mettere piede a terra. I russi sembrano più intenzionati a rinforzare al-Asad – rendendo coerente e quindi meglio difendibile l’area protetta dai suoi alauiti e dalle altre minoranze siriane che l’appoggiano – che a guidare una riconquista delle zone da noi occupate. L’Europa è bloccata da egoismi e paure che i nostri attentati, programmati con un accurato scadenzario, le impediscono di superare. Nel frattempo il nuovo esercito iracheno fugge o combatte male, mentre le uniche milizie guidate da un livello di convinzione paragonabile al nostro – gli sciiti, i curdi, gli yazidi e i loro alleati iraniani e libanesi – non osano affacciarsi nelle aree siro-irachene a maggioranza sunnita.
Comunque non mi illudo.
Gli Stati Uniti e l’Europa sono magari lentissimi a svegliarsi, ma quando finalmente escono dal loro torpore diventano un rullo schiacciasassi che polverizza qualsiasi ostacolo gli si pari davanti. Prima o poi arriverà quindi l’ondata che ci spazzerà via, distruggendo sino all’ultimo i nostri mezzi e uccidendo uno dopo l’altro tutti i nostri uomini. Ma noi siamo solo un’avanguardia e anche se trionferanno su di noi ci saranno altri compagni di fede che verranno a prendere il nostro posto, accendendo nuovi focolai in luoghi diversi. Già siamo riusciti a espanderci al di là di ogni più ottimistica previsione; inoltre movimenti che si rifanno a questo «califfato» e ne accettano la guida, pur mantenendo caratteristiche locali, esistono in più di venti paesi diversi e molti di loro controllano già ragguardevoli porzioni di territorio.
Il giorno che Iddio vorrà tutti questi fuochi sparsi finiranno con l’unirsi, trasformandosi in un grande rogo che illuminerà la nostra inevitabile vittoria.